Sono ancora utili i pagamenti diretti?
Quando mi capita di parlare con gli agricoltori mi accorgo che i pagamenti diretti sono assimilati ad una specie di epifania: almeno per la grande maggioranza di loro.
Del resto, ogni anno – alla fatidica scadenza del 15 maggio – arrivano agli organismi pagatori italiani 900.000 domande circa di pagamento (sono oltre 7 milioni in tutta l’Ue) e poi i beneficiari attendono l’ormai consueta tempistica dell’acconto autunnale e del saldo primaverile.
E’ un meccanismo rodato che comporta un vantaggio tangibile in termini di flussi di cassa delle aziende agricole. Spesso l’erogazione coincide con i momenti di maggiore esborso annuale per l’acquisto di mezzi tecnici o per altre operazioni realizzate dall’azienda, compresi gli investimenti e la copertura delle esigenze della famiglia.
Non si può dire la stessa cosa per gli altri capitoli della PAC.
Il PSR è una specie di incerta e costosa lotteria, con un numero di beneficiari finali scarso rispetto alla platea potenziale e, comunque, di gran lunga inferiore rispetto a quelli che ricevono i pagamenti diretti. “In media solo uno su otto dei beneficiari netti della Pac riceve sostegno dai fondi messi a disposizione dai programmi di sviluppo rurale” (si veda “La spesa Pac in Italia 2008-2014” di Franco Sotte e Edoardo Baldoni).
Come emerge consultando la rassegna stampa tecnica e generalista, sono in molti e non solo gli agricoltori a lamentarsi della scarsa funzionalità del secondo pilastro della PAC.
Anche la Corte dei Conti Europea è più volta intervenuta per evidenziare i problemi legati alla politica di sviluppo rurale, da ultimo con la Relazione numero 16 del 2017, con la quale ha raccomandato “minore complessità e maggiore focalizzazione sui risultati”, evidenziando che “i PSR approvati sono documenti lunghi e complessi, le cui carenze ostacoleranno l’ambizioso obiettivo di fornire un maggiore orientamento alle performance e ai risultati”, oltre a rimarcare come “l’esecuzione della spesa prevista per il corrente periodo di programmazione è iniziata più lentamente rispetto al periodo precedente”.
L’Organizzazione comune di mercato è evaporata dopo le ultime riforme della PAC ed è rimasto poco. Oggi ci sono:
- due piani di sostegno specifici per i settori del vino e dell’ortofrutta che presentano elementi di chiara debolezza, come l’anacronistico regime di controllo sui nuovi impianti di vigneti che tutto è fuorché il tanto invocato orientamento al mercato della PAC.
- Una rete di sicurezza pressoché inservibile, come si è incaricata di dimostrare l’ultima crisi dei mercati agricoli del 2015 e 2016, per il superamento della quale è stato necessario ricorrere a misure eccezionali, il cui effetto è stato, peraltro, giudicato tardivo dagli operatori economici.
- Ci sono, infine, delle evanescenti norme sulla regolazione del mercato, affidata alla buona volontà degli agricoltori ed alla loro capacità di aggregazione e di autonoma organizzazione che, salvo qualche eccezione, stenta a dare frutti concreti.
I pagamenti diretti sono un’essenziale componente economica e finanziaria per il bilancio delle imprese agricole, anche quando pesano relativamente poco sul fatturato. “Il reddito agricolo rimane altamente dipendente da tali pagamenti. In base ai dati FADN, nel periodo compreso tra il 2004 ed il 2013, il contributo dei pagamenti diretti al reddito netto aziendale è stato del 47%, quello degli altri trasferimenti pubblici del 15% ed il reddito proveniente dal mercato del 38%” (si veda Alan Matthews, “The future of direct payment”, novembre 2016).
A parte il ruolo del CAA e degli Organismi pagatori, i pagamenti diretti sono lo strumento di politica agraria che mette l’agricoltore in relazione diretta e pressoché senza intermediari, con la PAC e con l’Unione europea.
Con i pagamenti diretti, oltre alla disintermediazione, c’è sistematicità della prestazione fornita dall’istituzione. Con gli altri strumenti della PAC la filiera si allunga e come si dice con linguaggio tecnico, aumentano i costi di transazione: gli agricoltori direbbero che aumenta la burocrazia.
Non vedo negli altri strumenti la caratteristica di avvicinare in modo così evidente l’impresa con l’Ue e di generare, a favore della prima, un concreto e tangibile vantaggio.
Forse il meccanismo dei fondi di mutualizzazione potrebbe avere una simile caratteristica, configurandosi come un risparmio volontario, accantonato dall’agricoltore aderente nelle annate buone, per utilizzarlo in quelle cattive, con l’intervento Ue per rimpinguare il prelevamento. Tuttavia, è da verificare la concreta applicabilità, accessibilità e comprensibilità di tale misura di politica agraria, oggi assurta all’attenzione delle istituzioni europee e nazionali e degli stessi agenti economici.
Ho terminato l’elogio del regime dei pagamenti diretti, adesso presento una sintetica rassegna di qualche evidente difetto.
Questo strumento, introdotto per la prima volta nel 1992, è stato caricato nel tempo di finalità improprie ed ha perso la sua natura di strumento semplice che dovrebbe servire ad uno o pochi obiettivi omogenei e mirati.
In origine, il regime dei pagamenti diretti è nato come intervento per il sostegno del reddito degli agricoltori; oggi ha un ruolo multifunzionale (ambientale, territoriale, strutturale, sociale).
Ritengo che, ad esempio, una delle finalità improprie attribuite, sia quella di favorire il ricambio generazionale in agricoltura, con la misura del supplemento al pagamento di base riservato ai giovani, introdotto con la riforma del 2013. Tale misura, peraltro, non è finanziata con risorse aggiuntive, ma tramite prelevamenti sulle quote spettanti alla generalità dei beneficiari.
L’ansia del politicamente corretto e la rincorsa verso principi alla moda hanno portato dentro il sistema dei pagamenti diretti alcuni “aspetti ipocriti” e qui porto il caso dell’agricoltore attivo che è un formidabile moltiplicatore di burocrazia con risultati non coerenti con le attese: si voleva colpire la “Regina Elisabetta” e invece sono stati colpiti i barbieri e gli infermieri che si ostinano a coltivare il piccolo podere famigliare.
La discrezionalità decisionale accordata agli Stati Membri è stata utilizzata come merce di scambio per acquistare il consenso politico e oggi questo lo si avverte con una acuta disomogeneità nel funzionamento e nelle prestazioni. A Malta il 60% del plafond dei pagamenti diretti è utilizzato per il sostegno accoppiato, in Germania, Irlanda e Olanda tale percentuale è pari a zero.
In Finlandia una vacca da latte riceve un premio che va da 118 a 728 euro/capo, in Italia – che non è tra i Paesi membri meno generosi in tale ambito – il premio per capo va da 15 a 40 euro.
Il regime dei pagamenti diretti sconta un difetto di fabbrica: l’aggancio ai riferimenti storici deciso all’epoca della prima introduzione che in Italia ancora oggi fa sentire i propri deleteri effetti. Ad esempio c’è stata la trasformazione degli imbrogli in rendita. Infatti, quando il sostegno era legato alla produzione annuale chi più dichiarava più incassava sotto forma di contributi europei. Il disaccoppiamento su base storica ed individuale ha appunto proiettato verso il futuro l’effetto di ardite azioni di moltiplicazione cartacea della produzione, attuate ai danni del bilancio europeo.
Infine, il regime dei pagamenti diretti – come del resto anche altri capitoli della PAC – è soggetto ad una pervicace operazione di complicazione. Sotto certi aspetti si può dire che sia stato implicato (non mi è venuta in mente una diversa definizione) perfino in una strisciante propensione a sfiorare il ridicolo.
Per giustificare la forte affermazione ricorro all’esempio degli aiuti accoppiati che, in base ad un norma inserita nell’ambito del pacchetto omnibus, possono essere erogati in forma disaccoppiata. La questione è talmente contorta che esige una specifica spiegazione.
Nel regime dei pagamenti diretti, come noto, il disaccoppiamento è la regola e il sostegno accoppiato è l’eccezione. Ciò implica che questi ultimi siano riconosciuti a favore degli agricoltori beneficiari in funzione del livello produttivo raggiunto nell’anno al quale la domanda di pagamento si riferisce.
Una nuova disposizione non ancora pubblicata stabilisce che, in determinati casi (quando ci sono squilibri di mercato in atto), tali contributi potranno essere concessi sulla base del numero di capi o delle superfici per le quali tale sostegno è stato erogato in un periodo storico di riferimento. Si ritorna così di nuovo al punto di partenza e cioè al disaccoppiamento.
Tutto quello che ho evidenziato finora può essere sintetizzato in tre messaggi
i. I pagamenti diretti sono utili oggi per gli agricoltori;
ii. È stato fatto poco in 12 anni per correggere i difetti;
iii. Ce l’hanno messa tutta per peggiorarne il funzionamento.
Che fare?
Intravvedo due possibili opzioni che non mi pare siano contemplate nelle prime mosse attuate a livello di istituzioni europee nel corso della fase iniziale del processo di riforma della PAC per il dopo 2020.
L’opzione 1 è la soppressione del regime dei pagamenti diretti a livello europeo, portandolo fuori dalla PAC, affidando la gestione ed il finanziamento ai singoli Stati Membri, con regole orizzontali comuni, per salvaguardare le condizioni di concorrenza tra gli agricoltori.
L’opzione 2 è una operazione di sfrondatura del regime così come è oggi articolato, con mosse del tipo: l’eliminazione dal regime degli obiettivi impropri; il taglio degli elementi ornamentali come l’agricoltore attivo; la riduzione della discrezionalità degli Stati membri, procedendo verso una maggiore armonizzazione; infine sarei tendenzialmente propenso ad introdurre il co-finanziamento.
Alla base delle ipotesi di lavoro formulate ci sono due suggestioni che meritano di essere almeno menzionate.
La prima è la pericolosità di un’operazione che mira a sopprimere, oppure ad indebolire il regime dei pagamenti diretti, senza prevedere interventi alternativi e tali da assicurare la sostenibilità economica delle imprese agricole europee o quanto meno una transizione morbida.
Sarà per tale ragione che sembra prevalere a livello di istituzioni europee la volontà di dare continuità al regime, anche dopo la scadenza prevista del 2020.
La seconda è in questa sede solo adombrata e formulata essenzialmente per suscitare ulteriori riflessioni.
L’Italia è un contributore netto al bilancio complessivo dell’Unione europea ed a quello settoriale della PAC ed è alle prese con seri problemi di riduzione del debito e della spesa pubblica. In poche parole non è nelle condizioni e non può permettersi di aumentare a cuor leggero la contribuzione e peggiorare il saldo tra versamenti e trasferimenti.
Negli ultimi anni, c’è stato un eccessivo ridimensionamento degli interventi di politica agricola finanziati con aiuti di Stato e questo ha comportato l’effetto di attivare diversi strumenti, tra i quali spicca il sistema di gestione del rischio, con la politica di sviluppo rurale, con tutto ciò che questo comporta in termini di procedure di gestione, di oneri amministrativi e di rallentamento nell’erogazione dei contributi.
La Spagna e la Germania che pure hanno una solida tradizione nel campo assicurativo, hanno la forza di finanziare tale intervento con fondi nazionali e ciò conferisce una certa elasticità.
In definitiva, è arrivato il momento di eseguire delle valutazioni sull’opportunità e sulle modalità con le quali ridurre l’impegno finanziario italiano al bilancio europeo, anche per riacquistare la capacità a realizzare una autonoma, mirata ed efficace politica agricola nazionale.
Ermanno Comegna (*)
(*) Sintesi dell’intervento che l’autore ha tenuto al convegno della Società Italiana di Economia Agraria (SIDEA), presso la Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria dell’Università di Bologna, il 17 novembre 2017