Sicurezza alimentare o barriera all’importazione?
Nei paesi occidentali, dove ormai la fame risulta sconfitta da decenni e dove, anzi, il problema principale è divenuto nel tempo la sovralimentazione, negli ultimi 30 anni si è sviluppata una sempre maggiore attenzione al concetto di sicurezza alimentare inteso come garanzia che gli alimenti non debbano rappresentare un pericolo per la salute dei consumatori.
Questi ultimi hanno il diritto di dare per scontato che il cibo che mangiano sia sicuro e idoneo per il consumo. La sicurezza di un alimento è a tutti gli effetti un prerequisito, ben più importante della sua qualità, della funzionalità d’uso, del livello di servizio insito nell’alimento stesso, ecc.
Peraltro, stando alle cifre dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i casi annui di decessi dovuti ad intossicazioni alimentari raggiungerebbero nel mondo la cifra di due milioni. Ciò a causa di cibo contaminato da sostanze chimiche, da microrganismi patogeni o da contaminanti fisici (frammenti di vetro, metallo, ecc.).
Prima in Nord America, subito dopo in Europa ed a seguire in quasi tutti i paesi in cui si è sviluppata una moderna industria di trasformazione alimentare, si è affermata parallelamente una cultura profonda, che ha portato tutta la filiera all’applicazione di sistemi di autocontrollo igienico basati sui principi del metodo HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Point) come definiti dal Codex Alimentarius (http://www.codexalimentarius.org/ ).
Nell’Unione Europea, è stato promulgato (tra il 2002 ed il 2005) un insieme di norme regolamentari, definito “Pacchetto Igiene”, che individua i criteri ed i metodi di applicazione e di controllo dei sistemi da mettere in atto nelle diverse fasi dei processi alimentari per garantire che il prodotto finito non possa rappresentare alcun pericolo per il consumatore.
Anche su questo tema, il nostro Paese è all’avanguardia, con un altissimo livello di applicazione di questi sistemi da parte dei diversi attori della filiera alimentare e con una notevole azione di controllo da parte dei diversi Enti pubblici a ciò deputati (ASL, NAS, ecc.).
Le aziende che manipolano in qualunque forma gli alimenti, sono dotate infatti di piani di autocontrollo igienico che prendono in considerazione gli specifici pericoli igienici connessi con il processo produttivo che da esse viene svolto e che definiscono le procedure di prevenzione da mettere in atto al fine di evitare che questi pericoli si possano effettivamente manifestare.
Sebbene tutto sia ovviamente perfettibile, si può certamente dire che i prodotti alimentari realizzati in Italia siano fra i più sicuri al mondo. Questo è un concetto che è ben chiaro nei paesi di importazione dei nostri prodotti, dove la qualità a questi associata è certamente il maggior vanto di cui possiamo pregiarci, ma dove la sicurezza intrinseca delle nostre produzioni è assolutamente garantita.
Ebbene, malgrado quanto appena ricordato, Russia, Brasile, ed altri Paesi prescrivono che le aziende, per essere autorizzate ad esportare nei loro confini, debbano rispettare specifici standard di sicurezza che rappresentano spesso un aggravio burocratico/documentale.
Peraltro il sistema di controllo di questi Paesi coinvolge anche il Ministero della Salute che deve attivare procedure spesso lunghe e farraginose per poter inserire una specifica Azienda nell’elenco di quelle autorizzate ad esportare.
Oltre a dover attivare questi sistemi documentali paralleli a quelli in atto, poi, in alcuni casi, la singola Azienda che richieda l’inserimento in tali elenchi, deve attendere mesi – spesso anni – che una delegazione governativa di quello specifico paese organizzi una missione in Italia per controllare de visu lo stato di sicurezza che il nostro Ministero, tramite le ASL locali, ha di fatto già controllato e certificato.
Ci si trova quindi in situazioni nelle quali i rappresentanti di paesi dove spesso mancano basilari regole di sicurezza alimentare, vengono in missione in Italia per giudicare l’effettiva sicurezza delle produzioni nostrane. E tutto questo con grave dilatazione dei tempi per l’ottenimento dell’autorizzazione all’esportazione e con conseguente aggravio di costi e – spesso – perdita di opportunità commerciali.
Insomma, in un mercato globale che riteniamo ormai permeabile a tutti gli scambi, ciò che potrebbe sembrare come un lecito e doveroso sistema di garanzia e di tutela per i consumatori di uno specifico paese, risulta, in realtà, una vera e propria forma di barriera all’importazione. Con buona pace della globalizzazione!