Pluriattività rurale e sviluppo agricolo
L’Agricoltura tradizionale
I giornali divengono obsoleti dopo poche ore; eventi, anche importanti, dopo un paio di giorni, non “fanno più notizia”. In poche settimane si possono verificare completi rovesciamenti di situazioni politiche ed economiche. Questa visione a breve o brevissimo termine, se si applica alla maggior parte delle attività umane e degli eventi, non può essere ugualmente riferita all’agricoltura.
Nell’industria si possono accelerare i ritmi di produzione e nel commercio la velocità di distribuzione anche in modo sostanziale, ma i bioritmi agricoli sfuggono a questa logica della fretta, divenuta ormai frenetica nel mondo industrializzato.
Ma non solo i ritmi biologici, ma anche la base storica, la stessa evoluzione, spesso al rallentatore, della politica agraria debbono essere prese in considerazione se si vuole promuovere uno sviluppo realistico.
Gli agricoltori vengono troppo spesso tacciati di immobilismo, di non aggiornarsi con sufficiente rapidità con i tempi del jet. Imputazione gratuita, in quanto anche l’agricoltura si è evoluta in pochi decenni come mai aveva fatto in precedenza in centinaia od anche migliaia di anni.
Fino a pochi decenni fà l’agricoltura era caratterizzata da un altissimo livello di autonomia ed autosufficienza, nello spirito di un vero e proprio self-management. Le sementi utilizzate erano parte del raccolto precedente, i fertilizzanti erano costituiti dai residui animali e vegetali, opportunamente ricuperati, trattati e conservati; l’energia era essenzialmente muscolare, fornita dagli animali domestici e dalle braccia dei contadini. Sia il cibo per questi ultimi che il foraggio od il mangime per i primi erano di produzione aziendale. I servizi veterinari erano di fatto inesistenti e tra gli animali sopravvivevano, per selezione naturale, solo i più robusti e meglio nutriti. Gli attrezzi per la lavorazione del terreno o per i trasporti rurali o per la lavorazione dei prodotti agricoli erano sufficientemente semplici e tali da poter essere fabbricati e/o riparati nella fattoria stessa.
Le poche esigenze che richiedevano maggiore specializzazione erano comunque coperte a livello di artigiani delle comunità rurali. Solo quanto veniva prodotto a livello superiore alle immediate esigenze dell’azienda, era normalmente esitato (mediante baratto o vendita) nei mercati e fiere campestri o nei centri urbani vicini.
Va da sè che il reddito dell’agricoltore era relativamente basso e soprattutto aleatorio, dipendendo in modo preminente dalla qualità produttiva del territorio e dagli eventi metereologici. Il lavoro era duro e senza soste, dall’alba al tramonto, ma, in cambio, l’agricoltura era largamente autosufficiente ed indipendente per la maggior parte, se non per la totalità, dei suoi bisogni. Gli stessi indumenti venivano in gran parte filati e confezionati in casa. I fabbricati rurali, anche se precari e primitivi, venivano costruiti dagli stessi agricoltori, con l’aiuto degli artigiani locali.
La rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale e la conseguente richiesta di maggiori beni di consumo (alimenti, fibre, prodotti agricoli e forestali in genere) da parte di una popolazione urbana in rapida ed inusitata crescita e quindi l’aumento dei consumi stessi e dei bisogni dei nuovi tumultuosi agglomerati urbani, hanno reso essenziale un altrettanto spettacolare incremento della produzione agricola. A questo si aggiunga che i due ultimi conflitti bellici mondiali hanno chiaramente dimostrato ai governanti quanto la sicurezza alimentare fosse “conditio sine qua non” per perseguire ogni disegno politico concreto.
Si è giunti così a considerare, dagli albori del secolo scorso, come fosse necessario aumentare la produzione agricola ad ogni costo, concentrando quindi gli sforzi nella ricerca, nel reperimento e nell’uso del capitale e delle tecnologie più avanzate per raggiungere questo obbiettivo, ritenuto prioritario in senso assoluto.
Come risultato, in questo dinamico contesto evolutivo del mondo occidentale, si è giunti ad una produttività per ettaro, per capo di bestiame, per ora di lavoro, così elevati da essere ritenuti inattuabili, incredibili, solo pochi decenni prima.
Per raggiungere questi successi, questi traguardi produttivi, si è rivelato imperativo l’affermarsi di nuove tecnologie produttive e soprattutto rivoluzionarie rispetto al passato, nonchè l’implicita realizzazione concettuale di nuovi sistemi di imprese e strutture aziendali, con l’indispensabile concorso di altre forze economiche e manageriali, una volta estranee al mondo agricolo.
Oggigiorno la maggior parte delle attrezzature e dei macchinari, degli “inputs” agricoli, buona parte del patrimonio zootecnico e moltissimi dei servizi richiesti per il mantenimento ed il funzionamento delle operazioni aziendali, sono di provenienza esterna all’agricoltura. Industriali e commercianti che producono o trattano macchinari e prodotti necessari per la conduzione e la produzione dell’azienda, come pure specialisti meccanici, agronomi, veterinari, etc., sono divenuti parte integrante dell’ “agribusiness”, della vita quotidiana dell’imprenditore agricolo.
La necessità di credito bancario ha dato al dirigente della Banca o della Cassa Rurale un ruolo importante nelle decisioni ultime dell’imprenditore agricolo.
Anche la commercializzazione dei prodotti non obbedisce più a semplici regole di domanda ed offerta, legate ad esigenze e necessità locali, bensì ad un intercambio che allarga sempre più i propri confini verso mete inusitate (mercato globale).
Infine le politiche agricole nazionali o sovranazionali, i sussidi, le imposte, gli incentivi, i prezzi fissati dai mercati internazionali (a volte in regime di “trust”), i costi dei macchinari, dell’energia, della mano d’opera specializzata, le regole sulla qualità tecnologica e sanitaria dei prodotti, etc., sono divenuti fattori così importanti da influenzare e condizionare in modo determinante le scelte, le iniziative, la conduzione ed i ricavi dell’impresa agricola.
Nel frattempo, il lavoro fisico dell’agricoltore è ovviamente diminuito ed il reddito può essere anche aumentato, ma nel processo produttivo l’agricoltore ha perduto inevitabilmente e in modo determinante, la sua indipendenza e la sua libertà di azione. Tutto ciò ci porta ad una sorta di “laudatores temporis acti“? No di certo.
Occorre tuttavia convenire che non solo la situazione generale, ma la sostanza stessa dei nuovi indirizzi dell’impresa agricola e dell’agricoltore hanno instradato necessariamente l’agricoltura in una nuova via, apparentemente senza ritorno.
Con i mezzi forniti dalla tecnologia, dalle macchine, con le monocolture, il rendimento della “giornata-uomo” è aumentato in modo straordinario: ad esempio, un ettaro a frumento può essere coltivato con sole 5-10 giornate lavorative l’anno. Ciò ha provocato la riduzione della mano d’opera necessaria per la conduzione delle aziende agrarie e quindi una disponibilità accresciuta di manodopera per l’industria ed i servizi. Si è indotto e poi attuato, quindi, in modo spesso spettacolare e disordinato, il fenomeno dell’urbanesimo, con conseguente concentrazione delle attività industriali e dei servizi nelle città, man mano divenute sempre più megalopoli. La popolazione agricola si è drasticamente ridotta: da valori che talvolta superavano, all’inizio del secolo scorso, il 70-80% della popolazione totale, al 2-8%!
Questa trasmigrazione è avvenuta in Italia quasi sempre senza apprezzabile aggiornamento della struttura fondiaria, per cui una buona percentuale della già ridotta popolazione agricola sopravvive in fondi non sufficientemente grandi per assorbire le spese generali e particolari dell’azienda, e, quel che più conta, invecchiando anche rapidamente, per mancato rinnovo delle giovani leve, anche perché specialmente le giovani donne preferiscono maritarsi in città.
In due specifici studi del MIPAF e del CNEL risulta che i giovani italiani che lavorano nelle aziende agricole sono meno della metà della media europea: 5,2% rispetto al 10,5%; in Germania raggiungono il 16,5%.
Tra l’altro, l’ esodo dalle campagne ha anche determinato un notevole abbandono della “manutenzione” capillare dell’ambiente rurale, dapprima realizzata dai singoli agricoltori, con problemi di grave degrado del territorio (erosione dei suoli, inondazioni, incendi etc.) che ormai gravano sempre più sulle risorse pubbliche.
La risposta del mondo rurale
Come sta reagendo la “campagna” a questi problemi e difficoltà?
Una strada imboccata nella maggior parte degli Stati europei avanzati (l’Italia fa purtroppo eccezione) è stata quella di aumentare l’area dell’impresa agricola, sia privata che pubblica, utilizzando appieno i vantaggi dell’economia di scala ed al tempo stesso specializzando la produzione, in modo da diminuirne i costi.
Una seconda soluzione, che si sta facendo sempre più strada, specialmente in alcuni dei paesi europei, è legata alla cosiddetta “pluriattività”.
Gli agricoltori si sono accorti che la loro particolare posizione topografica ed ecologica poteva permettere altre attività, compatibili con i ritmi biologici imposti dalle coltivazioni e dagli allevamenti e passibili di una loro conduzione in parallelo.
Queste attività complementari (ad esempio, maestro di sci o cameriere di hotel) più propriamente riconducibili al “part time” che alla pluriattività, sono molto spesso iniziate nelle aree di montagna o marittime – di interesse turistico per sport invernali o vacanze estive – permettendo di ottenere, per gli agricoltori locali, uno o più redditi aggiuntivi rispetto a quello tradizionalmente ottenuto dalla pura attività agricola.
Molto spesso, successivamente, le attività parallele, dapprima molto spesso stagionali, sono divenute continuate nel tempo: così, in moltissime aree, il gestore dell’impresa agricola ha impostato una attività agrituristica, ovvero è divenuto anche gestore di una piccola impresa artigianale o mini-industriale, impegnata in servizi sociali o individuali, coinvolgendo spesso non solo la singola figura dell’agricoltore, ma la famiglia, la moglie, i figli, i parenti, i vicini di casa.
Il risultato è spesso estremamente brillante ed economicamente e socialmente interessante: la famiglia rimane unita, decentrata nelle zone rurali, con maggiore disponibilità e stabilità finanziarie, spesso con indubbi vantaggi economici ed ambientali rispetto al “monoattivo” e specializzato abitante delle città.
Si può considerare una rivoluzione silenziosa, spesso nemmeno sufficientemente considerata dalle politiche ufficiali, ma che tende – a lungo andare – a scardinare un sistema ed a crearne un’ altro, alternativo, economicamente e socialmente più stabile e forse più umano e vivibile.
Non si tratta quindi più di “part time”, di impieghi stagionali o temporanei, ma di un vero e proprio complesso di attività tra loro integrate, che coinvolgono tutto il nucleo familiare, il villaggio, la comunità rurale, durante tutto l’anno, con continuità.
La tradizionale e ormai obsoleta classificazione in attività primarie, secondarie e terziarie tende a sfumarsi in queste nuove figure miste di imprenditori agricoli che possono essere, allo stesso tempo, artigiani, industriali, commercianti e fornitori di servizi. Una figura socio-economica che taglia in orizzontale le tre piramidi tradizionali del “primario”, “secondario” e “terzario”, con un ritorno alle origini – in chiave moderna – con l’affermazione di questa nuova figura dell’ “agricoltore pluriattivo”, con un ricupero di una parte di quella autonomia e relativa autosufficienza già retaggio del passato.
Anche in alcuni Paesi in via di sviluppo, che ancor oggi hanno una popolazione agricola che può raggiungere una elevata e consistente percentuale della popolazione totale, sembra che questa possa essere una via interessante verso una modernizzazione della nuova società emergente: “costruiamo le città in campagna” potrebbe essere lo slogan del terzo millennio, nel senso di decentrare, almeno in parte, varie attività economiche nelle zone rurali, evitando urbanizzazioni selvagge e deleterie. Del resto, la costituzione, nelle città o nei suburbi, di grandi complessi industriali, basati meramente su un puro concetto di economia di scala, ha ormai mostrato i suoi limiti e le sue deficienze un pò dovunque, sia nei modelli capitalistici che socialisti.
Spesso non si è tenuto sufficientemente conto che la costituzione di megaprogetti industriali, che apparentemente sfruttano al massimo le tecnologie avanzate, necessitano di grossi dispendi di risorse e spazio complementari, per alloggi, comunicazioni, servizi sociali, logistici ed assistenziali per il numeroso personale impiegato: procurando, altresì, notevoli problemi di approvvigionamento di materie prime, acqua ed energia.
Inoltre tendono ad acutizzare i problemi di inquinamento dell’aria, dell’acqua e dell’ambiente in generale, caricando di ingenti costi aggiuntivi gli apparentemente convenienti investimenti stanziati per l’industria vera e propria, in senso stretto.
E se, per vicende economiche, politiche e/o di mercato, una grande azienda è costretta alla chiusura, sono migliaia di addetti, con le loro famiglie e tutto l’indotto, che entrano in crisi, con conseguenze economico-politiche spesso dirompenti.
Tuttavia è necessario considerare anche gli aspetti negativi del fenomeno: in molti casi la produzione agricola, anche per le dimensioni eccessivamente piccole dell’azienda agraria, è principalmente rivolta a soddisfare l’auto-consumo e l’imprenditore preferisce rimanere formalmente imprenditore agricolo per le varie facilitazioni fiscali e della PAC ancora esistenti, retaggio del passato e, di fatto, mai aggiornate, talvolta per pigrizia, ma spesso per meschini calcoli politici.
Un futuro per l’Europa rurale
La pluriattività è per ora un fenomeno localizzato in alcune aree dei Paesi europei più avanzati, con popolazione rurale più evoluta e preparata.
Tuttavia questa sembra essere una via da esplorare, da studiare ed attuare con oculatezza, promovendo una diffusione di tali esperienze in aree rurali disponibili e sufficientemente popolate, cercando di creare, in modo decentrato, attività economicamente vitali, nel rispetto e nelle valorizzazione dell’ambiente, usando le risorse umane e naturali dislocate nelle aree rurali in modo oculato e razionale, al fine di costruire una linea di vita più consona alle aspirazioni del singolo e della società, con ricadute sociali ed economiche certo non trascurabili.
Si tratta di convincere autorità nazionali e locali che la formula può avere pratiche applicazioni in ampia zone, con benefici notevoli per le comunità interessate e per molti Paesi. Già una parte non irrilevante della popolazione e delle imprese rurali oggi esistenti nell’Europa più avanzata godono di entrate non direttamente connesse con l’impresa agricola, ottenute da una serie sempre crescente di attività differenziate: agriturismo, trasporto locale, officine meccaniche, sport equestri, produzione di fertilizzanti biologici, utilizzazione di aree rurali per costruzioni di seconde case, vari tipi di artigianato, tra cui la produzione artigianale di tessuti e maglierie, una innumerevole serie di prodotti di processo e trasformazione di derrate agricole, piccole attività industriali e commerciali locali etc.
L’attività agricola pura e semplice rischia, in alcune aree privilegiate, di divenire una rarità anche perché le entrate extra-agricole possono diventare una vera e propria assicurazione contro disavventure climatiche, malattie del bestiame, raccolti decimati da insetti o malattie, aziende agricole sottodimensionate, elevato costo della manodopera, che tanto oggi affliggono le imprese agrarie.
Tuttavia, è facile mettere in evidenza che, se opportunamente organizzata e normata, la pluriattività ha due effetti positivi principali.
Da un lato essa può fornire lavoro a tutti i membri della famiglia o della comunità agricola e dall’altro può portare a ritmi di lavoro e di occupazione più equilibrati e continuati nel tempo, durante tutto l’anno. Un flusso di denaro dall’esterno è anche spesso usato per migliorare e razionalizzare il lavoro stesso dell’azienda agraria, aumentandone la produttività, riducendo la necessità di lavoro manuale, la necessità di richiedere prestiti a banche o ad altre organizzazioni creditizie, sia per investimenti che per anticipazioni stagionali.
In termini macroeconomici il contributo della pluriattività a sostegno delle aziende agricole e delle famiglie rurali porta a stabilizzare la stessa popolazione rurale nello spazio e nel tempo, porta ad incoraggiare lo sviluppo rurale e la formazione ed il miglioramento delle infrastrutture, porta ad un uso più efficace ed efficiente del territorio e ad una protezione più accurata dell’ambiente:
in breve, allo sviluppo di una nuova società rurale, più stabile e moderna.
Siamo convinti che ben lungi dal permettere ad agricoltori di seconda categoria di sbarcare il lunario, la pluriattività è quasi sempre legata ad uno spirito di iniziativa spesso originale e fantasioso. Man mano che la distanza, e non solo fisica, tra città e campagna viene a colmarsi, la distinzione tradizionale, la discriminazione psicologica tra lavoro urbano e rurale si fa sempre meno evidente, sia per qualità che per remunerazione.
In molte aree dell’Europa del nord e centrale, in Germania, in Svizzera, in Francia, in Austria ecc., ed anche in molte zone italiane, il livello dell’educazione e della qualificazione professionale della popolazione rurale ben poco o per nulla si differenzia da quella urbana, specie se di periferia, grazie a cambiamenti drastici, sia culturali che economici, intervenuti recentemente.
Il processo, talvolta trascurato o sottovalutato a livello politico e sindacale, per una serie di motivi non abbastanza ovvii, sta progredendo con relativa velocità.
Contrariamente a quanto si poteva pensare in passato, quando la soluzione era essenzialmente legata al part-time, oppure a penose migrazioni stagionali, la pluriattività oggi non è certo un residuo di un passato triste e pieno di sacrifici, bensì la chiave per una nuova, dinamica e certo più complessa, struttura rurale, proiettata verso un futuro che appare meno buio del passato, specie se accompagnato da una oculata politica di facilitazioni, verso una dimensione aziendale meno micronizzata.
Si deve, però, favorire il trasferimento di imprenditori prevalentemente non agricoltori definitivamente verso il secondario ed il terziario e favorire il riaccorpamento del territorio in aziende guidate da imprenditori che possibilmente coprano in parte o tutta la filiera produttiva: dalla vite al vino, dall’ulivo all’olio, dal grano al pane, dall’ortaggio al surgelato, dalla mucca al formaggio ecc., facilitando l’affitto di terreni abbandonati e godendo del valore aggiunto finora goduto da altri, eventualmente anche attraverso consorzi, società, cooperative ecc.
Fondamentalmente è questo il tipo di pluriattività a cui l’agricoltore deve mirare, non snaturando la sua professionalità, ma integrandola con le attività agroindustriali e commerciali della filiera prevalente e prescelta e garantendo in prima persona la qualità, la tipicità e la sanità del processo e del prodotto, anche con un rapporto il più possibile diretto, senza intermediari, con il suo nuovo-vecchio cliente: il consumatore.
La pluriattività, opportunamente gestita, può essere una soluzione interessante in un periodo in cui molte Nazioni europee cercano di limitare le importazioni di molti prodotti alimentari per l’uomo e per la nostra zootecnia, cercando nel contempo di non deprimere il livello di vita degli addetti agricoli, così da trovare, allo stesso tempo, un rimedio ad un inurbamento che può aumentare la disoccupazione, specialmente giovanile ed influenzare negativamente le prospettive occupazionali nelle zone urbane, non provocando, nel contempo, la desertificazione delle zone rurali.
Vi è certamente una strada ancora lunga da percorrere per raggiungere l’obbiettivo di una promozione economica, sociale e culturale delle popolazioni rurali, ma chi ha già percorso questa strada può aiutare altri a raggiungere gli stessi obbiettivi.
Del resto anche la PAC già si è mossa in tale direzione, con la valorizzazione del cosiddetto secondo pilastro.
Certo, è necessaria una intelligente ed oculata politica agricola anche a livello nazionale, oltre che europeo, avendo idee chiare ed obiettivi precisi.
Ma in questi ultimi decenni c’è stata in Italia una politica di sviluppo agricolo chiara e lungimirante?
Alessandro Bozzini
03/08/2015