Non c’è ricerca sugli OGM, se non è in pieno campo

Non c’è  ricerca sugli OGM, se non è in pieno campo

Gentile Presidente, cari colleghi,

ho chiesto di intervenire in questa discussione per approfondire con voi un aspetto del disegno di legge connesso alla direttiva europea n. 412 del 2015, che lascia liberi gli Stati di scegliere in autonomia se coltivare o meno OGM. Io voglio trattare un tema che è rappresentato in uno specifico ordine del giorno, tangente ma autonomo rispetto alla coltivazione, ovvero la raccomandazione richiamata nei considerata della stessa direttiva di promuovere la ricerca scientifica sugli OGM nella sua completezza. Mi rendo conto che discutere di OGM è difficilissimo: al solo pronunciarne il nome, scattano riflessi condizionati di rifiuto, che li associano alle multinazionali, alle grandi monoculture, a rischi ignoti per la salute e per l’ambiente, al timore della contaminazione delle coltivazioni tradizionali.

Mi chiedo se possiamo provare a non farlo per i prossimi quindici minuti, perchè vorrei ragionare con voi di ricerca pubblica in pieno campo sugli OGM, cioé quella ricerca pubblica che si fa in tanti Paesi europei, anche quelli che sono contro la coltivazione commerciale degli OGM. Vorrei parlare con voi di ricerca pubblica basata sulle biotecnologie per tutelare le nostre tipicità, per proteggere le nostre piante nei campi in cui sono coltivate, per ridurre l’impiego di dannosi pesticidi, per sviluppare le biotecnologie su semi non brevettati e complessivamente consentire all’agricoltura italiana di rimanere o diventare più competitiva. Questo  il mio specifico intento con voi oggi.

Gli OGM sono piante geneticamente modificate, come tutte quelle che l’uomo ha addomesticato dall’invenzione dell’agricoltura in poi. Si tratta di una tecnologia che non è più nuova, lo sappiamo tutti. Fino ad ora questa tecnologia spostava un gene d’interesse da una specie – ad esempio da un batterio resistente ad un parassita – ad un’altra specie – ad esempio il mais – per conferire ai tanti tipi diversi di mais resistenza a quei dannosi parassiti e quindi ridurre notevolmente l’impiego di pericolosi pesticidi. Oggi le biotecnologie fanno molto di più e, direi, molto meglio e non possiamo stare a guardare: spostano geni di interesse tra piante della stessa specie (un gene di un melo resistente spostato in un altro melo) oppure spengono un gene in un’altra pianta allo scopo di migliorarla, quindi non introducono niente di nuovo dall’esterno.

Ho passato dei mesi a studiare questi aspetti, a studiare come i ricercatori agrari in altri Paesi fanno ricerca su queste piante, usando le biotecnologie, con quali obiettivi. I loro Governi sostengono la loro sperimentazione in campo aperto. Ho studiato le tecniche per produrli, le procedure di protezione dei campi sperimentali, affinché niente esca e niente entri, i dati sulla sicurezza, il loro uso nell’alimentazione, l’impatto ambientale. Studiando questi temi ho dovuto anche affrontare le contraddizioni del nostro Paese e confesso di essermi appassionata all’argomento, senza avere alcun diretto interesse.

Mi interessa, infatti, capire come si affronta, in una società laica, un tema percepito come controverso e pieno di contraddizioni, che tocca le nostre emozioni più profonde, le nostre sensibilità più estreme, come la dipendenza dal cibo e dal buon cibo, la tradizione italiana e la nostra idea del «naturale quindi buono»; un tema davvero culturalmente affascinante nel quale dobbiamo inserire i fatti. Come vi ho anticipato, l’ordine del giorno che ho presentato non riguarda la coltivazione commerciale, ma quello che si può studiare a monte di tutto ciò. La stessa direttiva, nel lasciare liberi gli Stati, raccomanda l’investimento in ricerca. L’ordine del giorno mira a dare la possibilità ai nostri ricercatori di studiare le nostre piante, mira a lasciare liberi i nostri ricercatori pubblici, insieme agli agricoltori, di capire come evitare che le nostre piante, quelle che ci interessano e che abbiamo nei nostri campi, siano devastate, alle nostre latitudini, da tanti parassiti.

Sto parlando – vorrei chiarirlo ancora una volta – non della generazione di presunte piante omologate e standardizzate, prodotte con semi di multinazionali, ma, al contrario, di come le biotecnologie, soprattutto le nuove biotecnologie, non OGM (cioè quelle che non spostano geni da una specie all’altra, ma che usano geni della stessa specie) possano aiutare a tutelare la tipicità dei prodotti e delle piante italiani, che altrimenti – lo sapete bene – sarebbero presto persi (molti sono già persi). Sto anche parlando – e mi permetto di parlare anche di questo – del tema della libertà di ricerca; della libertà di ricerca su OGM in pieno campo, quella che fanno i tanti Paesi europei che non hanno mai impedito tale attività.

Da noi, invece, i progetti dei nostri ricercatori universitari o degli istituti di ricerca controllati dal Ministero dell’agricoltura sono chiusi da quindici anni nei cassetti. Dunque, noi paghiamo scienziati per scoprire, inventare, insegnare e applicare cose di utilità nazionale che, allo stesso tempo, impediamo loro di realizzare. Mi rendo conto che questo blocco alla ricerca pubblica è frutto dell’avversione cresciuta negli anni verso le coltivazioni commerciali degli OGM e verso le multinazionali che producono i semi OGM.

Ma, attenzione onorevoli senatori, sono le stesse multinazionali da cui ormai siamo dipendenti per i semi non OGM. Mi rendo anche conto che l’avversione è verso l’idea di questa omologazione, verso il controllo totale sulla produzione di beni vitali, ma la coltivazione commerciale e la ricerca pubblica sulle piante sono due cose diverse. Si può bloccare la prima pagando un caro prezzo economico – e non mi cimento su questo – ma non ci si può vietare di studiare qualcosa nella misura in cui le procedure sono sicure (e lo sono).

Vietare la ricerca, colleghi, è come censurare la libertà d’espressione: si lede un diritto fondamentale.

Vorrei essere chiara ancora una volta su un concetto: impedire le sperimentazioni in pieno campo su OGM significa impedire la ricerca pubblica, perchè l’unica ricerca vera su OGM è quella che sperimenta le  migliorie genetiche nelle condizioni di campo che attaccano quella pianta. L’Italia ha fatto ciò per tredici anni, ha impedito la conoscenza vietando la sperimentazione in campo aperto, mentre nel resto dell’Europa sono state condotte migliaia di sperimentazioni di OGM in pieno campo, anche in Paesi come la Germania e la Francia che osteggiano la coltivazione commerciale.

Guardate che la posizione del nostro Paese diventa ancora più singolare e addirittura contraddittoria quando si scopre che, mentre si vieta la ricerca biotecnologica pubblica sulle piante in generale, importiamo e mangiamo gli OGM – per così dire – classici e ormai di vecchia generazione. Questa è la prima contraddizione dalla quale trae spunto l’ordine del giorno sulla ricerca pubblica: li vietiamo, ma li importiamo; li mangiamo in modo massiccio da vent’anni, ma non li studiamo. Tra l’altro, se li mangiamo, la prima cosa che mi viene in mente è che, quindi, non è  vero che sono pericolosi per la salute e che possiamo farne a meno. Non si può mentire.

Al Paese bisogna dire che non li vogliamo coltivare, ma li acquistiamo a tonnellate; nutriamo gli allevamenti e poi finiscono nel nostro piatto, nelle forme di parmigiano reggiano o nel prosciutto di San Daniele. Questa contraddizione viaggia insieme a un altro paradosso che mi interessa per l’ordine del giorno. Abbiamo il terrore del monopolio delle multinazionali (sempre quelle a cui diamo il monopolio anche dei semi non OGM, non nascondiamolo mai questo), ma allo stesso tempo lasciamo loro campo libero non investendo in ricerca, nel senso che non facciamo proprio niente per limitare il loro monopolio. Non muoviamo un passo nella ricerca di forme di tutela e di rafforzamento dei nostri semi e delle nostre tipicità.

Non abbiamo quasi neanche più un’industria sementiera nel nostro Paese. Vietiamo cose che importiamo. Mangiamo ciò che non studiamo. Ci consegniamo alle multinazionali, non producendo innovazione.

Vengo ora alla seconda contraddizione, che  è ancora più rilevante per l’ordine del giorno. Le nostre piante sono invase da parassiti e noi stiamo perdendo delle tipicità agricole di cui andiamo fieri nel mondo, perchè non vogliamo studiare, sperimentare e usare le bio-tecnologie OGM e non OGM. Tutti o quasi tutti i semi che piantiamo in Italia sono progettati all’estero, anche le piante da orto.

Scusate se mi ripeto, onorevoli senatori, ma questo ordine del giorno non chiede di sostenere la coltivazione commerciale, che lasciamo agli altri, alla Spagna, da cui poi acquisteremo. Lo scopo non è sdoganare OGM prodotti dalle multinazionali, non è avere mele omologate. L’obiettivo è l’opposto: sollecitare con voi una riflessione pubblica sulle contraddizioni della nostra politica in materia, per capire se la ricerca pubblica che impiega le biotecnologie agrarie può esserci utile, almeno per proteggere e mantenere le nostre piante tipiche.

Ne stiamo perdendo troppe. Esistono progetti da anni chiusi nei cassetti, che dovreste leggere, ve ne racconto uno. Si tratta di un OGM pubblico, tutto italiano, persino ecosostenibile. L’Italia – come sappiamo bene – esporta mele in tutta Europa: sono dei prodotti tipici, dalle splendide mele dei nostri colleghi trentini a quelle della Valle d’Aosta, alle mele annurche campane. Tra l’altro, nel nostro Paese queste piantagioni hanno anche una rilevanza ambientale e culturale notevole e, alcune, arrivano dal Medioevo.

Tuttavia, il clima è cambiato e in tutto il mondo – ripeto in tutto il mondo – i meli sono attaccati da un flagello, un fungo responsabile della più grave e diffusa malattia delle mele: la ticchiolatura, che danneggia la pianta e produce delle macchie sul frutto, rendendolo non più commerciale. Lo scorso anno in una Regione d’Italia sono stati effettuati più di 30 trattamenti di pesticidi per difendere le mele dai parassiti. Anche le mele biologiche sono trattate con le sostanze chimiche consentite per questo tipo di coltivazioni. Si tratta dei sali di rame, un metallo pesante, tossico, che resta nel terreno per decenni. Non sarebbe bello avere delle mele che resistono alla malattia, cosicchè si ridurrebbe drasticamente il numero di trattamenti con agrofarmaci?

Ecco la storia del professor Silviero Sansavini dell’università di Bologna, un distinto signore, ora professore emerito, che ha piu` di settant’anni. Insieme al professor Tartarini scopre che una mela selvatica è immune dalla ticchiolatura perchè porta un gene, che si chiama Vf, che la protegge ed è un dono della natura. E` una selezione naturale. I ricercatori cercano di incrociare questa mela selvatica con le mele che noi siamo abituati a mangiare, ma non ci riescono perchè, durante l’incrocio, non passa solo il gene di interesse, ma possono anche migliaia o centinaia di altri geni che tolgono il valore organolettico a quella mela.

Sansavini e Tartarini, in un laboratorio universitario, prendono una mela della varietà Gala, una delle favorite dagli italiani, che deve però essere spruzzata con decine di trattamenti, e vi impiantano quel gene, quello che la rende immune dal parassita. Erano gli anni 1992-1993, e l’Italia era all’avanguardia nel mondo nel campo delle biotecnologie agrarie. I nostri genetisti agrari tenevano ancora alta nel mondo la bandiera di Nazareno Strampelli, universalmente riconosciuto come il fondatore del miglioramento delle piante su basi scientifiche.

Ma torniamo alle mele. Dopo pochi anni, le prime prove sulla mela Gala, fatte su meli coltivati in serra, danno i risultati sperati e, nel 2002, il nostro Paese è il primo al mondo ad arrivare ad un risultato desiderato da tutti. A Bologna ci sono meli geneticamente modificati, che ridurrebbero l’impatto ambientale, se coltivati, ma stanno in un cassetto.

Dobbiamo aver paura di questa mela? Viene chiamata cisgenica, perchè si sposta un gene da una pianta ad un’altra pianta della stessa specie. Non è progettata per essere venduta insieme ad un pesticida. Anzi, ne riduce fortemente la necessita`, e la pianta non deve essere riacquistata tutti gli anni dall’agricoltore. Il professore Sansavini avrebbe potuto brevettare la tecnologia di trasferimento del gene, ma non ha voluto. Ha pensato bene che non fosse giusto e l’ha reso di dominio pubblico. Chiunque nel mondo può utilizzare quel metodo per produrre mele resistenti alla malattia.

E` una bellissima storia, che però finisce qui, con la soddisfazione di un professore di essere stato il primo al mondo a realizzare un risultato a cui tutti ambivano, ma  anche con la lacerazione professionale di non avere mai visto la sua scoperta in campo, perchè il Ministero dell’agricoltura, dal 2002, vieta la sperimentazione in campo aperto.

E sapete cosa hanno fatto gli altri? Olanda e Svizzera hanno sviluppato l’uso del gene scoperto da Sansavini, hanno avuto l’autorizzazione alla coltivazione in esterno, con tutte le norme di sicurezza, e ora hanno campi di meli resistenti alla malattia.

Sono tanti gli esempi di questo tipo. Il professor Eddo Rugini, dell’Università della Tuscia, ha assistito impotente, il 12 giugno 2012, al rogo di trent’anni di conoscenza: la distruzione delle sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di ulivi geneticamente modificati per resistere ad alcuni parassiti o per tollerare meglio la siccità. Decenni di ricerca sono stati distrutti dalla mancanza di rinnovo di un’autorizzazione.

Vorrei citare anche Francesco Sala, scomparso nel 2011, grande genetista della mia università, la Statale di Milano. Non potendo sperimentare in campo i suoi meli valdostani resistenti al parassita melolontha, una larva che mangia le radici, e il suo riso Carnaroli, oramai rarissimo per l’attacco di un fungo, si dedicò allo sviluppo di pioppi resistenti agli insetti, che riuscì finalmente a vedere coltivati, ma non in Italia, in Cina, dove ve ne sono centinaia di migliaia di ettari.

E possiamo anche citare il pomodoro San Marzano, che ormai non esiste più. Era una tipicità di cui la Campania era il maggior produttore in Italia. Ma la pianta è attaccata da virus con sigle orribili: CMV, TSWV, CAMV. Non esistono preparati antivirali. Negli anni 2000 alcuni ricercatori stavano lavorando su geni capaci di dare resistenza a questo attacco virale. Il progetto è nel cassetto, e del nostro pomodoro tipico San Marzano non vi è ormai più alcuna traccia.

Tra gli anni Novanta e Duemila, noi eravamo all’avanguardia nel settore delle biotecnologie in agricoltura sui nostri prodotti tipici, per proteggerli: mele, ulivi, ciliegi, pomodori, kiwi, peperoni, riso, vite, melanzana e tanto altro; prodotti nostri, della nostra agricoltura, che non interessano alcuna multinazionale. Si aspettava solo l’emanazione di un regolamento dei Ministeri competenti per poter effettuare, in tutta sicurezza, le sperimentazioni in campo. Esattamente come un farmaco salvavita deve essere sperimentato sull’uomo per poterne verificare sicurezza ed efficacia.

Ma dal Duemila la politica italiana decide di bloccare tutto. Il regolamento non fu mai emanato. Sapete qual è stato, secondo me, l’errore principale? Il fatto di non rendersi conto che i nostri ricercatori, nei nostri centri di ricerca pubblici, stavano lavorando su esigenze nostre, tutte italiane. Un senatore mi ha chiesto – e lo ringrazio, perchè la domanda è giusta e pertinente – come si affronta il timore della contaminazione, conseguente alla sperimentazione in campo aperto con OGM.

La domanda sorge spontanea, se non si è specializzati sull’argomento o se non lo si ha studiato, ma ciascuno di noi studia argomenti diversi. Questo timore si annulla, come hanno fatto gli altri 19 Paesi europei che sperimentano in campo aperto, applicando i protocolli rigorosi che riducono a zero il  rischio di contaminazione. Questi protocolli contemplano soluzioni tecniche che gli specialisti conoscono bene e sono applicati nei Paesi che confinano con noi e fanno ricerca in campo aperto. E si tratta anche di questioni tecniche, con problematiche e soluzioni gestite in maniera assolutamente diversa rispetto alla coltivazione commerciale, anche a livello di legislazione europea. Il raccolto di un campo sperimentale – teniamolo bene a mente – che sia OGM o sperimentale di altro tipo, non può mai entrare nella filiera commerciale o alimentare, ma resta a disposizione solamente per le analisi scientifiche dei laboratori di ricerca che compiono quella sperimentazione.

Le due filiere sono strutturalmente separate per regola ed è scontato che tale separazione vada ribadita e sottolineata nelle normali procedure di autorizzazione. Sapete, colleghi, non sarebbe la prima volta che sperimenteremmo piante OGM in campo aperto in Italia. Tra il 1992 e il 2004 abbiamo coltivato in campo aperto quasi 300 tipologie di piante OGM diverse, senza leggi speciali e senza inventarsi nulla di particolare, ma semplicemente osservando le norme e i protocolli definiti pianta per pianta. Abbiamo messo in campo decine di piante OGM di pomodoro, melanzana, cicoria, vite, fragola, grano, mais o insalata, senza che ci fosse il minimo problema. Nella seconda metà degli anni Novanta in Italia si coltivarono anche decine di migliaia di campi di mais OGM, senza che ne sia rimasta traccia a livello sanitario e ambientale.

Chiudo, gentili colleghi, sottolineando che forse oggi abbiamo l’opportunità di richiamare l’attenzione del Governo verso una questione che – a mio avviso – deve essere, per coerenza, risolta. Vi ripeto che non c’è ricerca sugli OGM, se non è in pieno campo.

La scienza ha una qualità formidabile, che io non mi trattengo mai dal raccontare ai giovani. Non conosce le espressioni «è troppo tardi», «abbiamo perso il treno» o «cosa potremo mai fare noi con poche risorse di fronte ai giganti dei mondo». Nella scienza vincono solo l’intelligenza, le idee, l’ingegno e non la forza. E basterebbe davvero poco: basterebbe, cioè, raccogliere la raccomandazione dell’Unione europea a sostenere la ricerca pubblica in campo pieno su OGM e non OGM, per ridare speranza ad un settore dell’economia italiana che è strategico rispetto al futuro. Se questo accadesse sarebbe anche un segnale della volontà del nostro Paese di riaccendere la fiammella della conoscenza su questo argomento.


el_cttn

Redazione Fidaf

2 pensieri su “Non c’è ricerca sugli OGM, se non è in pieno campo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *