Niente pregiudizi sulla carne sintetica, ma valutazione della convenienza ambientale
Debbo confessare che quando sento parlare di bistecche sintetiche o di hamburger ottenuti dalla stampante 3D provo un moto spontaneo di rifiuto totale. Non mi aggrada l’idea di mangiare succedanei della carne che non provengano da un animale vero, anche se mi assicurano che sapore, odore, consistenza e aspetto esteriore sono perfettamente indistinguibili da quelli dell’originale. Come pure provo un impulso irrazionalmente negativo al pensiero di cibo derivato da insetti. Ciò nonostante, credo che la faccenda della carne artificiale meriti di essere affrontata con un approccio razionale.
Le motivazioni per produrre e consumare carne prodotta in laboratorio possono derivare dalla volontà di soddisfare la domanda alimentare di vegetariani e di vegani, che rifiutano il consumo di prodotti alimentari di origine animale, ma che abbisognano di nutrienti quali le proteine nobili ed il ferro, che si trovano in misura non sufficiente negli alimenti di origine vegetale. Non voglio però entrare in questo tipo di discussione, che attiene alla sfera etica e non a quella scientifica o tecnologica.
Un secondo ordine di motivazioni per la produzione di carne sintetica deriva dall’intenzione di eliminare le esternalità negative degli allevamenti di animali domestici, prima fra tutti l’emissione di gas climalteranti, senza per questo apportare significativi cambiamenti alla composizione delle diete dei consumatori onnivori. Queste motivazioni rientrano invece tra quelle che possono essere discusse alla luce della conoscenza scientifica.
Una prima considerazione riguarda la libertà di ricerca e di innovazione: ammesso che sia dimostrata la sicurezza alimentare dei nuovi prodotti, che non ci sia cioè rischio per la salute di chi ne faccia consumo, non credo che si debba intervenire con provvedimenti legislativi sulla loro diffusione. Saranno i consumatori che, esercitando le loro libere preferenze, decreteranno il successo o il fiasco della nuova proposta alimentare.
La seconda considerazione riguarda l’innegabile problema della sostenibilità della produzione di carne. Già nel 2006 la FAO indicava le problematiche ambientali causate dagli allevamenti di animali in produzione zootecnica nello studio “Livestock’s long shadow – environmental issues and options”. La concentrazione degli allevamenti in atto in tutte le parti del mondo – nota lo studio – provoca una forte concentrazione di surplus di azoto e di fosforo e il rilascio di materiali tossici che inquinano il suolo e l’acqua superficiale e distruggono la biodiversità. La forte domanda di mangimi e di foraggi causa anche l’espansione delle colture dedicate all’alimentazione del bestiame, sottraendo risorse alla produzione di prodotti destinati all’alimentazione umana diretta e spingendo in direzione dell’espansione della frontiera agricola a spese delle foreste e delle altre aree naturali. Inoltre l’allevamento del bestiame contribuisce significativamente all’emissione antropogenica di gas climalteranti, in particolar modo di metano prodotto dalla fermentazione enterica e dalla gestione del letame. La concentrazione di animali favorisce poi l’insorgere di epidemie di malattie infettive, alcune delle quali possono trasformarsi in zoonosi. Infine il sovrapascolamento ha degradato vaste aree, soprattutto – ma non solo – nelle aree semi-aride dei paesi a basso reddito.
Allo stesso tempo bisogna considerare che il settore zootecnico produce alimenti di alto valore nutrizionale, non sempre fungibili con alimenti di origine vegetale. Va ricordato inoltre che una parte cospicua degli alimenti utilizzabili dagli animali domestici sono poco o per niente utilizzabili per l’alimentazione umana, come per esempio l’erba, le foglie, la paglia e i sottoprodotti dell’industria alimentare. Le deiezioni animali offrono interessanti opportunità per il mantenimento della fertilità del suolo, apportando sostanza organica e sali minerali. Infine non può essere trascurata la dimensione socio-economica della zootecnia, responsabile a livello globale del 40% del valore aggiunto della produzione agricola e fonte di impiego per alcune centinaia di milioni di persone, molte delle quali vivono in zone dove non esistono possibili alternative occupazionali.
Potrebbe la conversione dei consumi da carne animale a carne artificiale consentire di annullare l’impatto ambientale degli allevamenti senza impoverire le nostre diete? La letteratura scientifica non appare concorde su questo punto, probabilmente perché i dati esaminati sono ancora troppo esigui per ottenere delle valutazioni affidabili.
Rimane invece chiaro che le esternalità negative degli allevamenti di bestiame possono essere drasticamente ridotte agendo contemporaneamente sull’efficienza della produzione zootecnica, massimizzando l’alimentazione animale non competitiva con quella umana, puntando sulla diminuzione dei consumi là dove sono eccessivi e sul riorientamento dei consumi verso carne prodotta da sistemi a minore impatto ambientale, per esempio da animali a più alto indice di conversione dei mangimi. Come conclude lo studio della FAO citato sopra, ci sono buone ragioni per credere che si possa riconciliare la domanda di prodotti di origine animale con quella di servizi ambientali.
In conclusione, bisogna guardare alla produzione di carne sintetica senza pregiudizi, ma valutando con attenzione i reali vantaggi ambientali che essa può offrire, senza trascurare le connesse problematiche culturali (accettazione da parte dei consumatori), economiche e sociali.