Nessun sostanziale cambiamento dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sulla mutagenesi in vitro
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) del 7.2.2023 nella causa C-688/21 nasce da una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d’État francese. Tutto ha origine dalla famosa sentenza della Corte europea del 25.7.2018 (nella causa C-528/2016, che tra l’altro era sostanzialmente fra le stesse parti) che, come si sa, aveva stabilito che la Direttiva 2001/18, nonostante la lettera del testo (All. IB e art. 3.1), non escludeva affatto la mutagenesi dall’ambito di applicazione delle norme della Direttiva medesima in ogni caso, ma solo quando si tratta di mutagenesi che impiega “tecniche di modificazione genetica utilizzate convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza” (come recita il Considerando 17 della Direttiva 2001/18).
La sentenza del 2018 è stata variamente commentata, e non ci ritorneremo su in questa sede, se non per dire che, dato l’approccio “procedurale” anziché sostanziale seguito dall’UE in materia di Ogm e modifiche genetiche in genere (vale a dire: si guarda al metodo della modifica genetica per valutare la sicurezza del risultato, anziché guardare a quest’ultimo), distinzioni arbitrarie e talvolta grottesche sono inevitabili, così come lo sono state a suo tempo nella morale gesuitica.
Sta di fatto che la Confédération Paysanne (parte sia della causa del 2018, sia di quella attuale) e altre organizzazioni anti-Ogm si sono immediatamente attivate per costringere il Governo francese a elencare i metodi provvisti di una “lunga tradizione di sicurezza” da escludere dalla Direttiva 2001/18. Quando il Governo si è rifiutato di espungere la mutagenesi dall’elenco, i ricorrenti sono ricorsi al giudice amministrativo ed ecco che questo ordina al Governo di stabilire che da un lato l’“editing genomico” e dall’altro la “mutagenesi casuale in vitro” non sono esclusi dall’ambito di applicazione della Direttiva 2001/18, essendosi, secondo il giudice francese, sviluppati dopo la Direttiva e essendo pertanto sprovvisti della “lunga tradizione di sicurezza” richiesta dalla sentenza del 2018. Il Governo ha quindi emanato un progetto di decreto che includeva anche la mutagenesi casuale in vitro, come richiesto dal giudice amministrativo.
A questo punto la Commissione UE, richiesta obbligatoriamente di un parere preventivo su detto progetto di decreto, si esprimeva in maniera molto negativa: in base sia al diritto UE, sia in base alla posizione della comunità scientifica, la mutagenesi in vitro non si differenzia affatto da quella in vivo. Il Conseil d’État però non è d’accordo: basandosi su un parere emesso dall’Haut Conseil des Biotechnologies, ritiene che la mutagenesi in vitro comporterebbe “variazioni genetiche ed epigenetiche, indicate col nome di ‘variazioni somaclonali’, che sono più frequenti delle mutazioni spontanee”.
Interviene quindi la Corte di Giustizia. Questa sostanzialmente ribadisce il portato fondamentale della sentenza del 2018, vale a dire che il fatto di impiegare la mutagenesi, nonostante la lettera della Direttiva 2001/18, non esclude la mutagenesi dall’ambito della Direttiva stessa. Non solo, ma la Corte aggiunge che “un’estensione generale del beneficio della deroga di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/18 agli organismi ottenuti mediante l’applicazione di una tecnica o di un metodo di mutagenesi fondati sulle stesse modalità di modificazione, da parte dell’agente mutageno, del materiale genetico dell’organismo interessato di una tecnica o di un metodo di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza, ma che combina tali modalità con altre caratteristiche, distinte da quelle di detta seconda tecnica o di detto secondo metodo di mutagenesi, non sarebbe conforme all’intento del legislatore.” Insomma: se uso un metodo di mutagenesi usato convenzionalmente in applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza, ma ci aggiungo “altre caratteristiche” estranee a quel metodo, non si può automaticamente escludere il nuovo metodo (risultante dall’aggiunta delle nuove caratteristiche al vecchio metodo) dall’ambito applicativo della Direttiva 2001/18, ma bisogna vedere caso per caso se quel metodo può essere ammesso o no.
Dopodiché però la Corte si chiede: basta, per impedire che operi la deroga dell’art. 3.1 della Direttiva, che al metodo con la lunga tradizione di sicurezza venga apportata “una modifica qualsiasi”? La Corte risponde: chiaramente no, perché una simile interpretazione renderebbe “eccessivamente difficile qualsiasi forma di adeguamento delle tecniche o dei metodi di mutagenesi, anche se tale interpretazione non è necessaria per raggiungere l’obiettivo di tutela dell’ambiente e della salute umana perseguito dalla direttiva di cui trattasi, nel rispetto del principio precauzionale.” E conclude: il fatto che “una tecnica o un metodo di mutagenesi abbia una o più caratteristiche distinte da quelle di una tecnica o di un metodo di mutagenesi utilizzati convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza deve essere pertanto considerato un motivo per escludere la deroga di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva … solo qualora sia dimostrato che tali caratteristiche possono comportare modificazioni del materiale genetico dell’organismo interessato diverse, per la loro natura o per il ritmo con cui si verificano, da quelle risultanti dall’applicazione di tale seconda tecnica o di tale secondo metodo di mutagenesi.”
Perciò, si tratta di vedere se “l’applicazione in vitro di una tecnica o di un metodo di mutagenesi inizialmente utilizzati in vivo” giustifichi la sottoposizione della mutagenesi in vitro alle regole della Direttiva. Ma, prosegue la Corte, in primo luogo è evidente che il legislatore comunitario non ha mai pensato che il semplice fatto di svolgere la mutagenesi in vitro anziché in vivo trasformasse la mutagenesi in una tecnica soggetta allo scrutinio ai sensi della Direttiva: tanto è vero che la normativa comunitaria non solo non distingue affatto fra metodi in vivo e metodi in vitro, ma all’art. 2.2 innanzitutto non include la coltura in vitro fra le tecniche che comportano “modificazione genetica”, e in secondo luogo menziona espressamente la fecondazione in vitro fra le tecniche che “non si ritiene producano modificazioni genetiche”. Ne deriva che il legislatore ha chiaramente “scelto di non far dipendere il regime applicabile all’induzione della poliploidia dal fatto che quest’ultima sia applicata o meno in vitro”. Non solo, ma la coltura in vitro era già da tempo ben conosciuta all’epoca della emanazione della Direttiva, come ha osservato la Commissione. Perciò, il semplice fatto che la mutagenesi avvenga in vitro anziché in vivo non è ragione sufficiente per sottoporla ai rigori della Direttiva 2001/18.
La sentenza, come si vede, è perfettamente conforme alla precedente sentenza del 2018. Come tale, si presta quindi alle medesime critiche. Certamente, va valutata con favore la posizione presa sulla mutagenesi in vitro, che per il momento pone fine (in attesa delle prossime trovate) ai deliri anti-OGM perlomeno su questo limitato profilo e lascia qualche spazio di agibilità pratica all’innovazione genetica. Resta però immodificato il principio basilare portato dalla sentenza del 2018: vale a dire che la mutagenesi non è esclusa in quanto tale dall’ambito di applicazione della Direttiva 2001/18 (come in realtà la Direttiva dice) ma soltanto nella misura in cui sia svolta con una tecnica provvista di un record storico di sicurezza sufficientemente consolidato – con l’ulteriore difetto che questo record storico non è minimamente specificato nel suo reale significato temporale. Eppure ormai siamo a 22 anni dall’emanazione della Direttiva: perché mai delle tecniche nate dopo il 2001 ma dimostrabilmente sicure non dovrebbero essere anch’esse esentate dall’applicazione della Direttiva 2001/18? Si aggiunga che è dubbio che sia davvero possibile, in pratica, distinguere tra “modificazioni del materiale genetico” ottenute con metodiche diverse in base alla “natura” e al “ritmo” delle modificazioni stesse, sicché la ratio della sentenza (e quindi anche quella della sentenza del 2018) verrebbe completamente meno. È bene quindi non farsi troppe illusioni sulle prospettive aperte da questa nuova pronuncia: per il momento, sul fronte delle innovazioni agricole, nulla di sostanziale è cambiato, né cambierà fino a che la pratica non riuscirà, eventualmente, a dimostrare che le distinzioni operate dalla giurisprudenza comunitaria tra i vari metodi di mutagenesi sono prive di senso.
Ma vi è un altra grossa incongruenza che non appare con il voler dare motivazioni all’arzigogolare di questi azzecagarbugli dei vari consigli di stato o CGUE.
Mi spiego: l’induzione a maggiori mutazioni si ottiene con un “bombardamento a caso” su ammassi cellulari più o meno grandi e complessi (semi, gemme (mutazione in vivo), tessuti cellulari che implicano la rigenerazione di una pianta intera in una satola di vetro (mutazione in vitro) dove vi è un substrato nutritivo e ormonale. In questo modo sono colpite comunque i cromosomi facenti parte di ogni cellula. Ora se io faccio germinare i semi irradiati molti non germineranno più perchè il bombardamento è stato quasi a tappeto, altri germineranno ma daranno degli individui incompleti e deformi, solo una minima parte darà una pianta che all’osservazione visiva sembra normale. E’ in questa categoria di individui che si cercherà di vedere se è avvenuta una mutazione interessante e se il prodotto che la pianta genera è paragonabile alla pianta non mutata. Questo è solo il tempo e lo screening continuo che ce lo dirà, ma rimarrà sempre una percentuale, anche se piccola che qualcosa ci sia sfuggito.. Quando è stato commercializzato il frumento Creso non penso proprio che si fosse sicuri al 100% di avere ottenuto un frumento che ci avrebbe dato una pasta o del pane identico a quello dei frumenti non mutati. Questo discorso vale sia quando si opera in vivo che in vitro. Gli azzegarbugli di cui sopra però non possono non ignorare che ormai ad esempio il metodo CRISPR non opera più un bombardamento a caso, bensì un elisione mirata su una base precisa che forma il cromosoma e quindi ho la possibilità di fare subito il confronto tra individuo mutato e non mutato, non solo ma sono anche sicuro che non ho modificato niente in altre parti del cromosoma.
Quindi a mio modesto avviso i giudici avrebbero dovuto dire che bisognava finirla con le mutazioni casuali indotte da un secolo in quanto era come uccidere le mosche con un fucile a pallettoni, e di ammettere come fonte di creazione di mutazioni solo il metodo CRISPR. Invece siamo all’incongruenza che il metodo crispr produce OGM, mentre un bombardamento a casaccio non ne produce.
Un esempio? Si sapeva che in peperone vi erano resistenze ai virus, studi di genomica hanno appurato che si trattava di una mutazione naturale avvenuta in un gene che produceva una proteine indispensabile al virus perché potesse infettare. Dei ricercatori dell’INRAE di Avignone hanno allora pensato di produrre la stessa mutazione naturale nel gene del pomodoro ciliegino, tramite le forbici molecolari del CRSPR Cas-9. Il tentativo è perfettamente riuscito agendo con precisione e impedendo la produzione della proteina indispensabile al virus per infettare. Vi immaginate le scarsissime probabilità di riuscita se avessimo agito con il sistema dell’irraggiamento che agisce totalmente a casaccio? Che fine farà questa applicazione biotecnologica? Finchè l’UE tace sulle TEA essa rimarrà nel cassetto, oppure sarà ceduta ad altri in altri continenti che invece la possono usare liberamente. Se non è “tafazzismo” questo io non so più che pensare!
Alberto Guidorzi