Ho già espresso più volte, anche di recente (qui) il mio giudizio sulle agricolture di cui Natura si si fa promotore: poco produttive e non più salubri di quelle tecnologicamente evolute.
Parlando di Glyphosate ho anche evidenziato (qui e qui ) quanto di demagogico vi sia negli allarmi sui residui di fitofarmaci presenti nelle acque.
Quello su cui vorrei però attirare l’attenzione del lettore è l’affermazione seguente:
“La scienza, se fosse vera Scienza, dovrebbe essere aperta al non ancora conosciuto, per non cadere in un oscurantismo dogmatico, come era di certe religioni decadenti del passato. Per fortuna dell’umanità la realtà della vita non segue né i vecchi dogmi religiosi né quelli moderni di una scienza per sua natura relativista, ma ubbidisce alle leggi intrinseche che ci garantiscono ancora, per grazia e con il nostro cosciente operare, salute, bellezza e cibo sano cui attingere.”
Da questa frase si evince che fra i signori di Natura Si e la scienza vi è un abisso incolmabile.
Infatti la scienza non è ricerca dell’assoluto ma solo un metodo che consente di distinguere, in modo sempre provvisorio e perfettibile, ciò che è vero da ciò che è falso. Quella scientifica è dunque una verità limitata che ad esempio in medicina ci consente oggi di mettere dalla parte della “non scienza” l’omeopatia, la cura Di Bella e il metodo Stamina.
Analogamente in agronomia possiamo collocare dal lato della non scienza gran parte dei precetti dell’agricoltura biodinamica e alcuni significativi aspetti di quella biologica (es: il fatto che una molecola d’urea che esce dalla pancia di un animale è “buona” mentre una molecola del tutto uguale che proviene da una sintesi chimica benemerita è “cattiva”).
Qui finisce il compito della “scienza”, il resto (“il non ancora conosciuto”) afferisce a qualcosa che con la scienza non ha nulla a che vedere.