Lo svincolo idrogeologico

Esiste qualcuno, sano di mente, che voglia mettere al centro dell’agenda strategica qualcosa di diverso dall’ambiente, e da una “sempre più green” economy? Speriamo di no: la conservazione durevole dell’habitat planetario globalmente inteso e della sua vitalità, senza intaccarne produttività ecologiche e capacità adattive, è l’unico vero obiettivo che possiamo darci: il resto dei vantaggi infatti ne discendono a cascata, e sono gerarchicamente subordinati.

Il titolo vuole quindi suonare come una provocazione, perché almeno per la geomorfologia italiana a prevalenza collinare e montuosa sarebbe folle propugnare una disinvolta rimozione delle limitazioni agli interventi  sui terreni, siano essi seminativi, boschi o incolti. Proprio perché non siano sottratte attenzioni, energie, e risorse alle priorità, dicendo svincolo idrogeologico si vuole piuttosto suggerire l’idea di riconoscere in modo specifico e con occhi nuovi – nel percorso pluridecennale dell’assetto e dell’uso del suolo – la fase attuale che stiamo attraversando, noi e i nostri territori: fase che non è più quella di 100 anni fa quando fu istituito – e poi miratamente imposto caso per caso – il vincolo idrogeologico tramite la legge Serpieri. La legge fu approvata per assecondare gli interessi capitalistici sul crescente business dell’idroelettrico (altrimenti sguarnito della regimazione idrogeologica), ma questa istanza si saldò con le esigenze ambientali-colturali di ricostituzione dei suoli degradati e socio-economiche di sviluppo.
La massima protezione al bosco e al suolo venne però più efficacemente garantita dai decenni successivi grazie allo spopolamento montano: a scala nazionale l’attenuazione e la rarefazione del prelievo di legno resero quasi obsoleta la legge Serpieri, non essendoci più la minaccia estesa dell’erosione innescata dal dissodamento, dal pascolo, dal prelievo intenso e ripetuto ai fini della sussistenza.
Del vincolo idrogeologico sui boschi (integrato poi da più generiche e meno lucide iniezioni di normativa paesaggistica e ambientale) e soprattutto della sua applicazione  tecnico-amministrativa adesso servirebbe la versione 2.0 ovvero evolution: che sottragga i boschi alla sacralità ideologica, alla pigrizia delle teorie accademiche, al soffocante proliferare di burocrazia amministrativa, arbitraria e paralizzante. E che esalti le potenzialità della infrastruttura boschiva come tale, proprio a cominciare da pedologia, botanica e selvicoltura, nei suoi ricchissimi risvolti naturali, protettivi, produttivi, fondiari, sociali, turistici, ricreativi, faunistici, venatori e chi più ne ha più ne metta: perché di posto – nei boschi – ce ne sarebbe tanto. Insomma servirebbe, senza nemmeno toccare le leggi, una diversa vision per inediti investimenti sulle opportunità connesse a una gestione ottimizzata dei boschi privati e pubblici. Con un solo vincolo: quello di massimizzarne e capitalizzarne durevolmente i vantaggi.
ruscello

Redazione Fidaf

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