La visione a lungo termine che manca su Istruzione e Ricerca
Al direttore – Nelle ultime settimane è stata rilasciata una prima bozza di Next Generation Italia, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con a disposizione 209 miliardi di euro, il cosiddetto Recovery fund.
Gli impegni ipotizzati suscitano la nostra preoccupazione rispetto a una visione strategica nel lungo termine.
Ad esempio, la missione “Istruzione e Ricerca” al punto 16 del Pnrr propone riforme a sostegno della collaborazione tra ricerca pubblica e privata, indicando come modello il Fraunhofer tedesco, ossia una rete di Istituti
di ricerca applicata dove ogni centro è specializzato in una delle tecnologie moderne.
La loro missione è stabilire contratti industriali. E’ un modello di successo, tra i più studiati al mondo, ma quanto è replicabile in Italia? Il modello si sposa con il profilo delle specializzazioni industriali dell’economia tedesca. E’ sostenuto da programmi di training e politiche sul lavoro, dal supporto
di una rete di istituzioni nazionali e, infine, dal settore bancario. La nostra credibilità in sede europea passerà anche da un’analisi rigorosa per stabilire se un modello estero tanto peculiare possa essere adattato ad un contesto tanto diverso come quello italiano.
Al punto 39, si parla di “ecosistemi dell’innovazione”: i finanziamenti saranno indirizzati alla creazione e al potenziamento di 20 “campioni territoriali di Ricerca & Sviluppo” specializzati alla “vocazione produttiva del territorio”. In parallelo, al punto 40, si consolidano sette Centri nazionali su domini tecnologici chiave con dotazione strutturale e di personale. Entrambi questi investimenti sembrano volersi coordinare al “modello Fraunhofer” e sono di per sé interessanti ma – a nostro avviso – ad alcune condizioni.
La prima: affinché si riesca a raggiungere gli obiettivi stabiliti con il Pnrr, è necessario assicurare che i contenuti siano il risultato di una trasparente e libera concorrenza tra le idee, e non affidati a mandatari decisi per
via politica “a priori”. L’iniezione di tali ingenti risorse impone infatti una rinnovata responsabilità politica: i meccanismi di selezione e valutazione dovranno essere studiati per alimentare la cultura del merito.
Seconda condizione: dopo il 2026 i Centri nazionali dovranno dimostrare di essere in grado di autosostenersi, creando un partenariato pubblico e privato in grado di moltiplicare le risorse e trovare sbocchi occupazionali
adeguati.
Terza: coinvolgere ex ante atenei/enti di ricerca. Iniziative di questo genere necessitano una pianificazione a lungo termine, per la formazione e strutturazione del capitale umano e il raccordo con le politiche in atto – alcune proprio con finanziamenti europei – che non possono essere interpellate “a sportello”.
Occorre quindi consolidare e portare finalmente a sistema le esperienze accumulate nell’ambito delle strategie di terza missione delle università/Epr. Ad esempio, le vocazioni territoriali sono già da tempo terreno di confronto tra regioni e Commissione europea per l’identificazione della Smart Specialization Strategy. La definizione dei “campioni territoriali” previsti dal Pnrr non esplicita se le loro “vocazioni” siano le stesse oggetto di tale confronto, né rende conto del processo di selezione.
Quello che purtroppo manca nel Pnrr è una strategia sulla ricerca curiosity-driven, quella a più alto rischio ma capace di generare le idee e i risultati a maggior impatto, ponendosi sui confini meno noti della conoscenza.
E’ la famosa “ricerca di base” da cui la ricerca applicata dei prossimi decenni dipenderà.
Ci uniamo quindi all’appello sul Piano Amaldi, rilanciato da autorevoli colleghi, che sottolinea la necessità di cogliere l’occasione dei fondi per raddoppiare gli investimenti in ricerca, in modo da invertire il declino del nostro paese.
Convincenti sono invece alcuni interventi attesi da tempo nei confronti delle nuove generazioni, a cui la strategia europea è dedicata, come gli investimenti sui ricercatori a tempo determinato (punto 31), il finanziamento che dà autonomia e spazio ai giovani ricercatori (punto 33) e le riforme citate ai punti 13-15 su lauree abilitanti, ordinamenti didattici e dottorati; ad integrazione di questi sarebbe auspicabile aggiungere proposte
volte a rimuovere, per esempio, i freni quali l’eccesso burocratico, il tetto del fabbisogno alle università, i limiti alla trasformazione digitale o l’Iva sugli investimenti in ricerca.
I tentativi di proposte alternative al Pnrr, allo stato attuale, rimangono vaghi presentandosi, a nostro avviso, come esercizio a tema libero che perde di vista l’interlocutore e i destinatari principali, ovvero l’Europa e
le prossime generazioni.
In definitiva, la mancanza che più si fa sentire nelle visioni intorno al Pnrr è quella di una rigorosa “peer review” dei progetti: un’analisi puntuale che miri al miglioramento dei progetti italiani per Next Generation Eu anche attraverso l’introduzione di un sistema di misurazione e valutazione competitiva delle proposte a ogni segmento.