La solitudine della specie umana
La nostra specie, come tutte le altre che ci hanno preceduto, in diverso modo è sempre stata a contatto con altre specie vegetali e animali, stabilendo rapporti identitari, come avvenuto nelle società dei cacciatori, degli allevatori e degli agricoltori. La stretta vicinanza fino alla coabitazione tra uomini e animali ha sviluppato una non sempre netta distinzione tra gli animali da reddito che forniscono lavoro, alimenti, materiali per l’abbigliamento e le decorazioni, e gli animali da compagnia o d’affezione; anche l’animale d’affezione più antico, il cane, al tempo stesso era il prezioso ausiliario per il cacciatore, il guardiano del bestiame per il pastore e il custode della casa per l’agricoltore. Quasi improvvisamente e tradendo una perenne consuetudine, la nuova mutazione antropologica dell’uomo urbano e tecnologico ha rotto ogni legame diretto e personale con gli animali, provocando violente e impensabili conseguenze di una nuova, innaturale solitudine di specie, una condizione innaturale perché anche all’inizio di uno dei più antichi libri della nostra civiltà, la Bibbia (Genesi 2, 18), il Signore Dio disse “non è bene che l’uomo sia solo”.
Nella sua solitudine biologica, la specie umana rompe la naturale e ancestrale delicata e complessa rete di rapporti con gli animali, il mondo vegetale, l’ambiente e, rivolgendo ogni attenzione solo a se stessa, sviluppa fenomeni d’intolleranza intraspecifica anche aggressiva con il rigetto anche di comportamenti alimentari primigeni antichissimi, quali la nutrizione carnea o l’uso di prodotti d’origine animale. Nella sua solitudine il singolo individuo sviluppa anche netti e diffusi segni d’insicurezza e di squilibri psicologici con riflessi psicosomatici, sociali e sanitari…