La sicurezza alimentare: quale futuro per il nostro approvvigionamento?
Il tema della “fame nel mondo” è oggetto di una intensa attenzione soprattutto nei più importanti consessi internazionali. La visuale viene, però, essenzialmente focalizzata con riferimento alle aree più penalizzate sul piano climatico o politico, soprattutto sotto la spinta degli effetti destabilizzanti dei flussi migratori. Di converso, le aree più strutturate sul piano economico e sociale sembrano isolare ogni proiezione nell’ambito di catastrofiche visioni neomalthusiane o distopiche, riferite ad un futuro virtuale sufficientemente lontano ed incerto: “nel 2050, in un pianeta ad altissimo tasso di inquinamento o addirittura post-nucleare, 9 miliardi di abitanti si metteranno in movimento alla ricerca del cibo”.
In realtà, il processo pressoché irreversibile di internazionalizzazione dei mercati, in forte ed esponenziale accelerazione per le continue aperture commerciali anche tra aree incompatibili sul piano sociale ed economico, rende comunque incombente la prospettiva di accentuati e generalizzati squilibri sul piano della sicurezza alimentare, intesa come disponibilità di cibo salubre ed a prezzi equi. I prezzi internazionali, costituiscono, infatti, un riferimento pressoché vincolante per la formazione dei prezzi sul Mercato Interno.
Il mercato mondiale, pur soggetto al rischio di una volatilità spesso speculativa, tende a stabilizzarsi ad un livello di prezzi bassi, la cui persistenza, secondo i più autorevoli analisti perdurerà almeno per un decennio. Ne deriva per il nostro Paese una estensione sempre più ampia dello status di trasformatore di prodotti agricoli importati, poiché gli acquisti a prezzi ridotti fanno aggio sulla qualità e addirittura sulla salubrità. Si impone, pertanto, un organico percorso di consolidamento di una struttura produttiva troppo spesso marginale nel confronto competitivo all’interno dell’Unione Europea ed in quello internazionale.
Il nostro bilancio agricolo presenta un deficit costante ad un livello superiore al 50% e tenderà ulteriormente ad appesantirsi una volta definiti i numerosi accordi commerciali, in corso di negoziazione da parte dell’UE.
Ne consegue l’esigenza che ogni adesione internazionale, implementata con gradualità e grande cautela, debba assolutamente essere preceduta da studi di impatto che, congrui e rispondenti ad ogni possibile congiuntura, tengano non solo conto degli effetti sul piano commerciale ma siano soprattutto intonati alla difesa della salubrità alimentare e della nostra identità culturale.
La valenza strategica delle nostre produzioni agricole non può certamente essere barattata sacrificando la sicurezza alimentare in cambio di contropartite commerciali, ancorché queste possano contribuire al riequilibro economico del nostro Paese: con il cibo non si può certo scherzare!
Inoltre, molteplici fattori rischiano in futuro di comportare una limitazione se non un ridimensionamento delle produzioni agricole con conseguente rialzo dei prezzi internazionali anche in tempi più ravvicinati rispetto alle previsioni, innestando seri problemi per i nostri consumatori. D’altronde, il recupero del suolo ad alta specializzazione produttiva appare arduo se non improbabile, soprattutto in caso di un abbandono prolungato nel tempo.
Trattasi di condizionamenti di estrema rilevanza, correlati non solo ad importanti eventi geopolitici ma anche ad altre molteplici cause quali l’incontenibile riscaldamento globale, il degrado ambientale, la riduzione delle risorse idriche, il dissesto idrogeologico, il continuo incremento della urbanizzazione.
Con particolare ma non esclusivo riferimento alle importazioni assume, inoltre, uno specifico risalto una crescente contaminazione chimica delle produzioni agricole, ancorché essa sia troppo spesso percepita, anche per la diffusione sempre più frequente di fake news, al di là delle correnti certificazioni sanitarie. D’altro canto, non si può non rilevare come ai severi richiami nei continui aggiornamenti scientifici non corrisponda sempre un immediato adeguamento dei protocolli di monitoraggio e controllo, sul piano del pieno rispetto del principio di precauzione.
Caro Lodovico, credo anch’io che la soluzione sia nella costruzione di accordi internazionali, anche se molti ritengono, probabilmente a ragione, che la causa di una globalizzazione troppo rapida e senza i necessari contrappesi sia stata proprio il primo di questi grandi accordi, che ha portato alla costituzione nel 1995 del WTO (World Trade Organization, organismo costituito da paesi che rappresentano oltre il 95 % del commercio mondiale) strumento per un’apertura dei mercati a ritmi molto veloci che ha avuto effetti positivi sul commercio mondiale e sulle possibilità offerte a paesi quali India e Cina, ma ha anche creato, a causa della eterogeneità dei soggetti interconnessi, problemi non facili da affrontare. Ciao Luigi
Tra le emergenze che negli ultimi decenni si sono susseguite all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, possiamo ricordare:
– l’esplosione demografica
– l’insufficiente disponibilità di fonti energetiche
– la fame nel mondo
– le epidemie planetarie
– la scarsità d’acqua
– la distruzione delle foreste
– l’inquinamento delle matrici ambientali
– la scomparsa di alcune specie e più in generale la perdita di biodiversità
– l’effetto serra e i cambiamenti climatici
– le migrazioni di massa.
L’uomo migliaia di anni fa passando da raccoglitore-cacciatore a pastore-agricoltore e ancor più con la rivoluzione industriale, ha scelto di superare i precedenti limiti nella disponibilità di risorse (per esempio della risorsa alimentare carne fornita dalla caccia quando è passato alla pastorizia) e in questo senso ha scelto di governare il mondo e non può smettere: deve continuare a farlo, ma con maggiore consapevolezza e responsabilità in considerazione della pervasività e la potenza delle tecnologie oggi disponibili. In una certa misura il timore del nuovo è fisiologico nell’uomo: se ne trovano tracce nei miti dell’antica Grecia che sottolineano il rapporto tra la tecnologia e il divino (Prometeo condannato per l’eternità per aver rubato il fuoco agli dei, Vulcano detentore della tecnologia del ferro, Atena, che dona l’ulivo agli uomini). Un esempio relativamente recente è l’ostilità all’introduzione del battello a vapore e del treno a vapore nell’Inghilterra agli inizi dell’Ottocento (più in generale è emblematica la sequenza da società agricola classista con le sue ingiustizie, incluso lo schiavismo nelle colonie americane, alla neo industrializzazione con le sue sofferenze fino all’odierna società inglese, che solo da meno di un secolo ha superato lo sfruttamento delle colonie, con la sua dinamica e il suo benessere, ancorché ovviamente ancora imperfetta).
Per un periodo di quasi un secolo dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’70 del Novecento, in concomitanza con una diffusa fiducia nel progresso, l’umanità ha creduto fideisticamente nella tecnologia attribuendo a essa potenzialità enormi e solo benefiche. L’attuale secolo (che pure ha visto innovazioni tecnologiche enormi basti pensare alle ICT – e alla microelettronica che ne ha consentito lo sviluppo – e alle scienze biomediche) vede prevalere concezioni della tecnologia, alla quale comunque fa continuo ricorso, come un rischio da cui guardarsi e spesso deplora l’industria come il canale attraverso il quale si materializza questo rischio.
Alimentano una lettura anti-tecnologica, che diventa nei fatti autolesionistica, le esortazioni illusorie ispirate a prospettive di “decrescita felice” di ritorno a tutt’altro che definite “soluzioni naturali” o ispirate a un rimpianto generico dei tempi andati, irrealistico sia come analisi del passato, sia come prospettiva futura. Un altro elemento paradossale è la contraddittorietà nella valutazione delle potenzialità della tecnologia. Ma pur nel riconoscimento della valenza irrinunciabile dello sviluppo tecnologico della civiltà va riconosciuto che sono drammaticamente mancati nello sviluppo delle conoscenze umane l’equilibrio e il dialogo tra la dimensione delle scienze cosiddette hard, con relative tecnologie, le scienze cosiddette soft nei diversi risvolti da quello letterario-filosofico a quello psicologico-antropologico, e le scienze socio-economiche e politico-giuridiche dalle quali si pretendeva un ruolo di ponte e di sintesi troppo impegnativo per essere svolto appieno.
Caro Luigi, gli accordi ex WTO si riferivano prevalentemente allo smantellamento delle barriere tariffarie e molto meno ad un processo di omologazione sistemica. Per quanto riguarda l’Agricoltura, essi partivano da dazi convenzionali elevatissimi e prevedevano giganteschi contrappesi: pensa alla possibilità di una esportazione sovvenzionata delle eccedenze e a prelievi alle importazioni nel caso di prezzi mondiali bassi o alle esportazioni nel caso di prezzi alti. Il tutto nel contesto di forti garanzie a favore dei produttori; garanzie certamente eccessive, soprattutto se ne si considera l’utilizzo spesso dissennato. La riforma della PAC del 2003-2006 ha cambiato tutto esponendo i produttori ad un confronto competitivo impari, soprattutto sul mercato mondiale. In estrema sintesi, i nuovi accordi internazionali non solo mettono a repentaglio la stessa nostra identità culturale ma ci lasciano indifesi di fronte alla incombenza di un rialzo dei prezzi mondiali. Si impone una reazione immediata e decisa, non certo in chiave protezionistica ma con l’obiettivo di un consolidamento produttivo che può e deve essere conseguito a tutti i costi. Il problema è: sussiste al livello politico la sensibilità ad aprire una organica riflessione al di fuori dalle ricorrenti distorsioni elettorali? Il mondo scientifico, le organizzazioni professionali, sono pronti a dare il proprio contributo a tutela dell’interesse pubblico?
Ti ringrazio caro Lodovico per le utili precisazioni. L’apparente contraddizione sul ruolo degli Accordi internazionali – accelerazione o soluzione dei problemi – si supera sottolineando che l’apertura incondizionata dei mercati non è un bene in sé ma deve essere costruita su regole adeguate ai fenomeni in atto, accompagnata da controlli sostanziali sulle regole convenute e scandita con una tempistica tale da evitare transitori di difficile gestione. Come scrive il Prof. Fabio Pistella, l’osservazione di fondo – con varie specificità – si applica anche alla UE nel senso che l’apertura al suo interno dei mercati e più in generale dell’attività economica fino all’adozione di una moneta unica non può non essere accompagnata tempestivamente, da altre integrazioni a cominciare dalle regole fiscali per arrivare progressivamente all’integrazione della finanza pubblica con corrispondente rafforzamento delle istituzioni comuni. Stupisce negativamente, come sottolinea (Fabio Pistella) che questi negoziati su questioni di grande rilievo (giova ripeterlo protezione dell’ambiente, del lavoro minorile, della salute dei lavoratori) un’occasione, forse irripetibile, per segnare progressi effettivi siano solo marginalmente seguiti dai media e quindi dalla pubblica opinione che è invece bombardata su momenti di incontro internazionale più vistosi, ma molto meno incisivi.