La Bibbia e l’ agricoltura …un ponte tra oriente e occidente (prima parte)

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La letteratura agraria ha, in Oriente, radici antiche quanto la scrittura: è dall’età del bronzo, due millenni prima dell’inizio dell’era cristiana, che le cronache geroglifiche dell’Egitto e le tavolette cuneiformi della Mesopotamia registrano l’entità dei raccolti, fissano regole per l’impiego delle acque, per l’assegnazione dei campi da seminare, sanciscono i rapporti tra le classi sociali che partecipano alla divisione dei frutti della terra. Le prime espressioni della letteratura agraria della valle del Nilo, di quelle del Tigri e dell’Eufrate, costituiscono, peraltro, terreno estraneo alla storia della letteratura agraria dell’Occidente, tema di interesse più per l’orientalista che per il cultore dell’agronomia europea.

Nella storia della cultura occidentale ha diritto ad un posto di rilievo, invece, per l’influenza capitale che è destinata ad esercitare, la Bibbia, la raccolta dei testi scritti da un popolo dell’Oriente insediato sulle rive del Mediterraneo, in un paese aperto alle comunicazioni con l’Occidente, destinato, non soltanto per l’ubicazione geografica, a esercitare sulla civiltà europea un influsso profondo e duraturo. Le pagine che nella Bibbia rivestono un significato agronomico costituiscono, di diritto, il primo capitolo della storia della letteratura agraria dell’Occidente.

Per il ruolo di sutura della civiltà ebraica tra l’Oriente, dove l’agricoltura è nata, e l’Europa, ove essa si arricchirà, nei secoli, degli apporti di tutti i continenti, componendoli con procedure originali per convertirsi in tecnologia fondata sulla scienza, le pagine bibliche sulle pratiche agricole costituiscono il preludio dell’itinerario lungo il quale dalla riflessione sull’impiego delle risorse naturali maturerà, in Occidente, la scienza agronomica moderna. L’agricoltura costituisce, peraltro, elemento tanto rilevante della civiltà ebraica che tutti i libri sacri sono intessuti di precetti, parafrasi e metafore agricole e pastorali, il cui inventario è stato realizzato, con meticolosità, fino dall’alba del Novecento, da una schiera di studiosi. Tra i cento precetti e le cento parabole ispirate all’agricoltura e all’allevamento pare interessante identificare, quindi, quelli che testimoniano un’autentica riflessione sui rapporti tra l’uomo e le risorse naturali oggetto di sfruttamento agricolo, quindi una concezione agronomica, trascurando gli innumerevoli elementi di conoscenza sulle specie coltivate, vegetali e animali, le pratiche di coltura e gli strumenti agrari, la cui catalogazione e il cui commento sono proposti da una più ricca biblioteca.

Isacco manipola la riproduzione ovina

Per reperire, nella Bibbia, la prima pagina significativa per la storia della coltivazione è sufficiente scorrere il capitolo della creazione e giungere, al secondo capitolo della Genesi, alla descrizione del Paradiso, una parola che sappiamo doversi tradurre, letteralmente, con quella italiana “giardino”: “Prima che nascesse dalla terra ogni virgulto dei campi, prima che producesse ogni erba nella regione, Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra, né v’era l’uomo che la rivoltasse… Aveva piantato Dio da principio un paradiso di delizia, dove pose l’uomo che aveva formato. E produsse il Signore Iddio dalla terra ogni legno bello a vedersi, e piacevole a cibarsene…”

Può apparire suggestiva espressione di poesia religiosa: singolarmente la paleobotanica e l’archeologia hanno dimostrato che nessuno, tra i centri di origine della coltivazione disposti sui continenti, fosse dotato di una combinazione di specie vegetali e animali altrettanto favorevole all’economia umana della regione in cui la Scrittura colloca il Paradiso, la regione tra il Taunus, il Caucaso e gli Zagros solcata dal Tigri e dall’Eufrate che gli archeologi hanno denominato Mezzaluna fertile. In quell’area si sviluppa, al termine dell’ultima glaciazione, una combinazione di specie vegetali e animali che offre alle popolazioni di raccoglitori del Mesolitico una sicurezza alimentare affatto particolare, che favorisce, in Età neolitica, la nascita di un contesto di coltivazione e allevamento di organicità ineguagliata sugli altri continenti.
Nelle oasi mesopotamiche crescono naturalmente fichi, melograni, pistacchi, mandorle, uva e olive, nella steppa circostante branchi di pecore, capre e bovini selvatici pascolano tra i cereali selvatici: sono condizioni che è verosimile abbiano assicurato alle genti primitive, dodici millenni prima dell’Era cristiana, una facilità di reperimento del cibo che l’uomo non avrebbe più conosciuto nel lungo cammino della storia, la condizione felice che il testo sacro attribuisce ai progenitori dopo la creazione. Vegetali e animali del contesto mesopotamico sono, peraltro, agevolmente assoggettabili alla signoria umana: è questa la premessa del prendere forma, nella Mezzaluna, di un’agricoltura evoluta in significativo anticipo su quella dell’Asia orientale e dell’America centromeridionale, quell’agricoltura che alimenta, già nel quarto millenio avanti Cristo, autentiche popolose società urbane.
Proseguendo la lettura della Genesi, giunti al trentesimo capitolo il cronista ci illustra, nei versi dedicati al soggiorno di Giacobbe presso Labano, di cui sposa, una dopo l’altra, entrambe le figlie, il procedimento con cui il nipote di Abramo sottrae al suocero la parte più cospicua delle greggi che ha contribuito, con la propria accortezza, ad accrescere. Il giovane desidera fare ritorno, con le mogli, alla terra del padre, il suocero, che ne ha sperimentato l’abilità a capo dei suoi pastori, lo prega di restare, chiedendogli cosa desideri come compenso. “Tu sai come ti ho servito, e quanto grande sia divenuta la tua ricchezza nelle mie mani – risponde il giovane pastore –; prima che arrivassi da te avevi poco, ora sei diventato ricco: il Signore ti ha benedetto al mio arrivo. È giusto che provveda un poco anche alla mia casa. Rispose Labano: Cosa ti darò? E l’altro: non voglio nulla, ma se farai quello che chiedo, pascolerò ancora le tue pecore. Volgi i tuoi greggi, e separa tutte le pecore variegate e pezzate, e tutto ciò che sia bruno, maculato e variegato, tanto nelle pecore quanto nelle capre, sia la mia mercede. Risponderà di me domani la mia giustizia, quando sarà per te il tempo di verificare il patto, tutto ciò che non sarà variegato, macchiato e bruno, tanto nelle pecore quanto nelle capre, mi accuserà di furto. Rispose Labano: Quello che chiedi mi è gradito. E separò quel giorno le capre, e le pecore, e i capri e gli arieti, variegati e maculati, e tutto il gregge di un solo colore, cioè di lana bianca o nera, affidò alle mani dei suoi figli. E pose uno spazio di tre giorni tra sé e il genero, che pascolava il resto dei suoi greggi.
Prendendo allora Giacobbe verghe verdi di pioppo, di mandorlo, e di platano, in parte le decorticò, e tolta la corteccia, in quelle che erano state spogliate apparve il candore, quelle che non erano state spogliate rimasero verdi, e così il colore ne divenne vario. Le pose nei canali, dove veniva effusa l’acqua, e quando venivano le greggi all’abbeverata, e avevano davanti agli occhi le verghe, concepivano guardandole. Avvenne che nel calore della monta le pecore guardassero le verghe, e procreassero una progenie maculata, variegata e pezzata di colore diverso… Così quando le pecore si accoppiavano nella prima stagione, Giacobbe collocava le verghe sui canali dell’acqua, davanti agli occhi degli arieti e delle pecore, perché concepissero guardandole, quando invece la monta era tardiva, o per l’ultimo parto, non le metteva. E così quelle tardive erano di Labano, quelle della prima stagione di Giacobbe. L’uomo divenne ricco oltre ogni misura, ed ebbe molti greggi, servi e serve, cammelli e asini.”
Nella storia delle conoscenze umane è la prima testimonianza dell’interesse dell’allevatore per individuare la legge della trasmissione delle caratteristiche degli animali, un fenomeno la cui comprensione assicurerebbe vantaggi evidenti, che resterà mistero, tuttavia, fino al crepuscolo dell’Ottocento. La curiosità, tuttavia, e la scelta dei riproduttori sulla base di una credenza o di un pregiudizio, non sono, peraltro, scevri di conseguenze, esercitando sulla morfologia animale un’azione selettiva che, seppure indipendente dai propositi, può manifestare, soprattutto ove sia persistente, conseguenze anche cospicue. Qualsiasi siano i criteri con cui, sostituendosi alla selezione naturale, il pastore sceglie gli agnelli da destinare alla riproduzione, il suo intervento altera, infatti, i meccanismi di ricombinazione dei caratteri genetici delle specie divenute dimestiche, accrescendo progressivamente la differenza dai progenitori. L’accorgimento di Giacobbe per ottenere, al parto, pecore di colore bianco è certamente singolare: non saranno essenzialmente diversi, pealtro, gli espedienti che suggerirà, per controllare i caratteri del frutto del concepimento, il maggiore filosofo dell’antichità, Aristotele.
Propone un elemento accessorio di interesse, nell’episodio della Genesi, la menzione dei canali impiegati per l’abbeverata, che possono essere le semplici conche attorno ad un pozzo, la fonte più semplice di acqua nella regione mesopotamica, ma possono essere altresì canali di derivazione da un corso d’acqua. Piuttosto che alla pastorizia il canale, se di autentico canale si tratta, è legato all’agricoltura, un’attività che la letteratura storica contrappone, tradizionalmente, all’allevamento, che nello scenario in cui Giacobbe accudisce alle greggi del suocero non è elemento antitetico, ma complementare all’economia del bestiame. All’arrivo di ospiti Abramo, signore di armenti, nel diciottesimo capitolo della Genesi fa impastare alle schiave farina per offrire ai visitatori, con il vitello arrosto, una focaccia di grano: la prova di un’economia ambivalente, che comprende allevamento e coltivazione. La terra dei patriarchi è il lembo occidentale della regione che si distende attorno ai Due Fiumi, la grande Mezzaluna in cui agricoltura e allevamento nascono insieme e insieme si sviluppano, iscrivendo un fenomeno unico negli annali dell’umanità, che in nessuno degli altri poli di origine dell’agricolturaa registrano una connessione altrettanto solida tra coltivazione e allevamento, quella correlazione che si converte in binomio inscindibile con l’impiego dei bovini nell’aratura dei campi destinati ai cereali.
Aggiunge un elemento di interesse alla narrazione del trentesimo capitolo della Genesi l’inclusione, nel patrimonio di un patriarca, con le pecore e le schiave, dei cammelli, che non sono originari della Mesopotamia, ma dell’Asia centrale, la cui presenza tra le specie domestiche, sulle sponde dei Due Fiumi all’alba del secondo millennio avanti Cristo, presuppone scambi antichi tra regioni lontane, con la progressiva traslocazione della specie e la sua adozione, quale mezzo di trasporto, da parte delle società pastorali della Mezzaluna, che, per gli spostamenti delle greggi tra pascoli estivi e invernali, necessitano di un mezzo di trasporto robusto e paziente, due caratteristiche che non possiede il cavallo, un animale rapido ma impaziente, inadatto al trasporto dell’oneroso corredo di tende, tappeti, vasellame di cucina, scorte di cibo, che costituisce la ricchezza di Abramo, di Isacco e dei loro discendenti.

I patriarchi prevengono il sovrapascolo

Tra i brani della Genesi che propongono notizie ed elementi di giudizio sui rapporti tra le società mesopotamiche e le risorse naturali all’alba dell’Età del bronzo il più significativo è costituito dal racconto del commiato tra Esaù e Giacobbe che, dopo il baratto della primogenitura per le famose lenticchie, uno dei primi legumi coltivati, e la fuga del secondogenito, astuto ma timoroso, si rappacificano e vivono qualche tempo insieme, fino a quando sono proprio le leggi dello sfruttamento delle risorse a imporne la separazione. “Prese allora Esaù le sue mogli, i figli e le figlie – leggiamo nel capitolo XXXVI del primo libbro della Bibbia – e ogni vivente della sua casa, e la sostanza, e le greggi, e tutto quello che aveva potuto avere nella terra di Canaan, e se ne andò in un’altra regione, si allontanò da suo fratello Giacobbe. Infatti erano molto ricchi, e non potevano abitare insieme: non li sopportava la terra della loro peregrinazione per la moltitudine delle greggi. E Esaù abitò sul monte Seir, che è Edom.”
L’Onnipotente ha benedetto i due patriarchi assicurando la prolificità delle loro spose, delle loro schiave, delle loro bestie, che si sono tanto moltiplicate da non poter più essere ospitate dalla medesima regione. Nella sua essenzialità, l’evento solleva i nodi essenziali delle relazioni tra gli uomini, gli spazi geografici, la vitalità dei manti vegetali da cui dipende l’alimentazione degli animali, quindi quella dei pastori che degli animali vivono. È stato, tra il Settecento e l’Ottocento, Robert Malthus a sostenere, per primo, che la terra non sarebbe capace di sostenere un numero illimitato di esseri viventi, animali e uomini, spiegando che alle pratiche agrarie di ogni epoca corrisponderebbe un numero massimo di esseri umani che i sistemi naturali sarebbero capaci di sostenere: il superamento di quel limite provocherebbe, inevitabilmente, inedia e malattie, che ricondurrebbero il numero dei viventi al di sotto del limite violato.
Alla dottrina di Malthus si sono opposti, con uguale calore, gli esponenti di tutte le professioni cristiane, cattolici e protestanti, propensi a vedere nell’imperativo divino del primo capitolo della Genesi, “Moltiplicatevi e popolate la terra” un mandato incondizionato. La lettura critica del commiato dei due fratelli suggerisce, invece, che l’esperienza pastorale avrebbe insegnato ai patriarchi che la crescita di un popolo benedetto dall’Onnipotente può condurlo ad una consistenza che la terra sulla quale vive non è più in grado di sostenere. Un accrescimento ulteriore delle bestie e degli uomini produrrebbe il degrado dei pascoli, quindi il deperimento del bestiame, la povertà degli uomini6.
Evitando di concentrare nella terra di Canaan un numero di animali superiore alle sue capacità, i figli di Isacco prevengono, con accortezza ecologica, il fenomeno degenerativo che botanici e agronomi definiscono “sovrapascolo”, il processo che si constata, oggi, nelle regioni pastorali dell’Asia e, soprattutto, dell’Africa. Complessa sostituzione delle specie pabulari più ricche con specie più rozze, e meno nutrienti, il sovrapascolo costringe le tribù pastorali che l’abbiano causato ad eliminare i bovini più esigenti, per allevare ovini, quindi a sostituire gli ovini con i caprini, che, rodendo anche le radici delle erbe, predispongono il terreno alla depredazione del vento, premessa, nelle aree subtropicali, della conversione di una steppa erbosa in deserto.
Contro le interpretazioni di Malthus di chi non ne ha mai letto il testo, il limite oltre il quale il popolamento di una regione travalica le potenzialità delle risorse alimentari non è, per l’economista inglese, vincolo assoluto, è, piuttosto, limite relativo. Esaù e Giacobbe si separano non tanto perché la terra di Canaan sia incapace di sostenere una popolazione superiore all’entità di due piccole tribù di pastori, complessivamente alcune centinaia di esseri umani e qualche decina di migliaia di pecore, vacche e cammelli, ma perché le pratiche di allevamento e di coltivazione che quelle tribù praticano non consentono di ricavare, da quella terra, alimenti per un numero maggiore di esseri viventi. Trasformate le convalli in arativi, quella terra può mantenere una popolazione senza confronto superiore: consterà di centinaia di migliaia di persone la popolazione della Palestina al tempo di Davide e sarà, forse, ancora maggiore al tempo del censimento di Augusto.
Ma ad ogni stadio delle pratiche agrarie corrisponde un limite, che l’evoluzione della tecnologia sposta lentamente, secondo una progressione alquanto più lenta di quella che è capace di realizzare una popolazione priva di vincoli alimentari. Elidendone le asserzioni accessorie, il teorema di Malthus si riduce alla constatazione che la produzione di alimenti si è sempre sviluppata, storicamente, ad un ritmo più lento di quello secondo cui si moltiplicherebbe la popolazione umana ove non lo impedisse la carenza di cibo.
Paradossalemente, dimostra la congruenza del teorema il popolamento attuale della Palestina, dove la ricomposizione della diaspora biblica ha raccolto cinque milioni di persone in una regione in cui la tecnologia agronomica più progredita è incapace di alimentarne, per l’esiguità delle superfici e le carenze di acqua, un numero superiore alla metà, tanto che solo la massiccia importazione di cereali americani consente di nutrire un paese la cui popolazione ha perduto ogni rapporto biologico con le risorse naturali. Ma sul piano planetario i cereali che può acquistare un paese in possesso di valuta estera sono sottratti ai paesi dove all’inedia si associa l’impossibilità di acquistare quanto non si può, o non si sa, ottenere dalla terra.

di Antonio Saltini vai all’articolo originale Agrarian sciences

Redazione Fidaf

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