Interrogativi sul “Recovery Fund” per ambiente ed energia
È il momento di riflettere sugli obiettivi della “transizione ecologica”. La cronaca politica ci ha abituati ormai ad un generale apprezzamento delle azioni politiche sviluppate in Europa dal governo Draghi. In particolare, il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” per l’ambiente – PNRR recepito a Bruxelles dal “Recovery Fund”, permetterà all’Italia di ricevere straordinarie risorse finanziare per raggiungere gli obiettivi fissati: abbattere del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030 ed azzerarle entro il 2050. Un primo interrogativo lo pongono i tempi: la realizzazione del Piano prospetta un arco trentennale di interventi, mentre le prime severe verifiche della Commissione Europea scatteranno nel primo quinquennio, con scadenze che saranno trimestrali!
Questo PNRR suscita molte preoccupazioni perché, come vedremo, “trascura” l’agricoltura e l’importanza che questa dovrebbe avere nelle trasformazioni da mettere in atto. Il nostro sistema produttivo agroalimentare è accusato, ingiustamente, dagli ambientalisti più accesi, nella fattispecie il WWF, di essere la principale causa di emissioni di CO2; ma questo non è vero, come si può dimostrare; l’agricoltura è consapevole delle responsabilità di operare entro parametri ecosostenibili e per questo da tempo ha imboccato la via di una graduale “transizione ecologica” (la stessa definizione delle competenze assegnate al neo Ministro Roberto Cingolani).
Questa strategia dovrebbe essere ora parte fondante del Piano governativo, ma la sua attuazione passerà attraverso interventi settoriali che si prospettano disorganici, divergenti, in gran parte da definire e quindi ancora suscettibili di discussione e modifiche. Infatti, i fondi disponibili (86 miliardi di euro) potranno essere investiti solo in energie rinnovabili, per far raggiungere al paese, nel corso di un decennio, una potenza di 70 gigawatt, derivata essenzialmente da solare ed eolico. Con i ritmi di crescita attuali (incremento annuo di circa 0,8 gigawatt) saremo dunque ben lontani dal centrare l’obiettivo. È ben vero che disponiamo di una rete di pannelli fotovoltaici e solari già ampiamente disseminati dal Nord al Sud (tetti di abitazioni, centri industriali, coperture di superfici di suolo, caseggiati rurali, stalle, magazzini, ecc.) che hanno finora goduto di varie forme contributive. A questo va aggiunta l’energia verde ricavata dal biometano, pure in espansione con significativi impianti industriali operanti in varie regioni.
Dobbiamo chiederci se l’Italia e la nostra agricoltura sapranno cogliere appieno l’opportunità del Piano e mettere in campo gli asset già esistenti e le sue potenzialità, salvo altrimenti esserne penalizzati, se non esclusi. Potremo anzitutto far valere l’enorme contributo alla lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico dato dalle risorse agroforestali distribuite su oltre un terzo della superficie del paese (fissazione della CO2 ed emissione di O2).
C’è una missione da rispettare: il nostro sistema agroalimentare produce cibo, che corrisponde a meno della metà delle necessità della popolazione e corre il rischio di salvaguardare sempre meno la sua sovranità alimentare. Cibo però di eccellenza qualitativa, come dimostrano la diffusione del biologico e della produzione integrata, i sistemi di certificazione, i marchi e le numerose tipicità che sottendono le aree territoriali più vocate.
I consumi, invece, seguono modelli imposti o promossi da gruppi multinazionali che producono o comprano commodities, prodotti ortofrutticoli e specialità dove hanno maggiore convenienza, non importa se manca la decarbonizzazione (l’Italia produce emissioni per solo il 9% del totale, rispetto al 15% degli Stati Uniti, al 30% della Cina e al 35% dei paesi emergenti). È stato addirittura istituito da poco un mercato finanziario mondiale dei “crediti di carbonio” che aiuta i trasgressori a mantenere attive le loro emissioni!
Per ora, nel Piano governativo le misure dirette al settore agricolo mobilitano complessivamente 3,68 miliardi, inclusi quelli della transizione ecologica e quindi ecosostenibili. Nel riparto, 1,5 miliardi andranno nell’insieme all’efficienza energetica, fotovoltaico e strutture; 880 milioni all’agrosistema irriguo e risorse idriche, 800 milioni al piano per la logistica e 500 milioni alle innovazioni per la meccanizzazione.
A latere, l’Italia però potrebbe proporre proprie vie alternative per avere energia pulita, anche se non verde, estraendola, come sta facendo, da metano o gas naturale o escogitando metodologie innovative che non sacrifichino l’agricoltura.
La Francia, per esempio, paese che non ha mai abbandonato il nucleare, sta progettando un mixaggio di varie forme energetiche pulite, inclusi minireattori nucleari da soli 340 megawatt. Anche la Germania dei Verdi sta preparando proposte alternative a difesa dell’ambiente.
Le criticità
Secondo fonti attendibili, il PNRR sottrarrebbe all’agricoltura per la necessaria installazione di una abnorme quantità di pannelli fotovoltaici, oltre duecentomila ha di suolo (addio legge di tutela), incluso quello incolto (complessivamente, poco meno del 2% della superficie agraria coltivata) e l’insediamento di pale eoliche, ovunque, magari anche dove non c’è vento, come più volte ha denunciato in passato Vittorio Sgarbi. Ovviamente si sono già alzate le proteste e il dissenso degli enti per la tutela del paesaggio e del turismo. Il ministro Cingolani afferma che il costo della transizione ecologica sarà “elevatissimo”, ma i suoi timori sembrano non riguardare tanto la quasi certezza di rompere un già fragile equilibrio ambientale, quanto le difficoltà di rispettare i tempi di attuazione del piano, facendo ricorso, subito, ad una “legge di accelerazione più che di semplificazione” burocratica per le opere da realizzare, perché se il piano fallirà si perderanno i soldi.
È inevitabile, scrive Cingolani, che “ci sia un po’ di impatto sul sistema e sul paesaggio”, la “sostenibilità ha dei costi non solo economici, ed è sempre un compromesso”; “non può essere un valore assoluto”. Altro proposito del ministro è quello di dare titolo, fra le energie verdi e rinnovabili, anche all’idrogeno, da introdurre per trasporti e mobilità non solo urbani, ma anche per decarbonizzare la grande industria (es. Ilva). Questo obiettivo sfrutterebbe le ricerche e tecnologie innovative di processo italiane, già realizzate con successo da alcune grandi aziende statali.
Come se ciò non bastasse, il Piano Draghi è stato attaccato con finalità molto ideologiche da Lega Ambiente e altre associazioni o centri mobilitati contro l’agricoltura intensiva, chiedendo che i fondi per i “business ambientali” (che corrispondono a circa il 37% dei 248 miliardi virtualmente a disposizione dell’Italia) siano impegnati per “progetti che riguardano clima ed efficienza energetica”. Vorrebbero inoltre includere negli aventi causa “le comunità energetiche del fotovoltaico”.
Ma c’è di più: il nuovo Ministro dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli, ha recentemente dichiarato che negli investimenti del PNRR l’agricoltura potrà passare dall’indice 4 a 5, applicando massicciamente le innovazioni tecnologiche digitali. Ma, attingendo ai rilevamenti dell’ISTAT (2019) il prof. Corrado Giacomini ha replicato che questo obiettivo è già stato mancato nel quinquennio precedente, quando il Ministero aveva previsto che nel 2021 le tecnologie dell’“agricoltura 4” avrebbero raggiunto il 10% della SAU, mentre la stima allo scorso anno si ferma al 3-4%. La causa principale di questo “ritardo” va ricercata, in primo luogo, nella storica frammentazione e polverizzazione delle terre. Infatti, a fronte di 1,5 milioni di imprese censite, solo 413.000 (con media di 20 ha), che competono quotidianamente sui mercati, potrebbero potenzialmente adeguarsi. Ma tutte le altre, la stragrande maggioranza, cioè le aziende famigliari dei piccoli coltivatori, quelli della “filiera corta”, gli amatori e i part-time, senza capitali di investimento ne sarebbero impossibilitati o troverebbero assai maggiori difficoltà.
Nella mia lunga esperienza universitaria ho spesso constatato che gli agricoltori, per quanto professionalmente preparati, come nel comparto della frutticoltura, mentre sono propensi a dotarsi in fretta di mezzi meccanici, per risparmiare fatica e fare meglio, sono dubbiosi o restii nell’acquisto di mezzi innovativi che richiedono verifiche, adattamenti, confidenzialità, dimostrazione della convenienza; vedi strumentazioni e know how informatici. Ad esempio, ci sono voluti anni per la diffusione, ora generalizzata, nelle singole aziende, dell’automazione irrigua programmata.
Perciò, la digitalizzazione agricola preconizzata dal Ministro (siano sistemi interattivi, monitoraggi in rete, algoritmi e intelligenza artificiale, attuazione di risparmi energetici di precisione, fino all’utilizzo di droni e robot ecc.), potrà diventare provvidenziale per certi settori, ma gradualmente nel tempo.
La ricerca scientifico-tecnologica italiana (non abbastanza considerata), avrà un ruolo fondamentale di supporto e creatività per la realizzazione del Piano, ancorché operi in condizioni limitative per carenza di risorse, di coordinamento centrale e di prospettive. È auspicabile che su questi temi si sviluppi un dibattito a partire dalla centralità dell’agricoltura, perché col Recovery si prenderanno decisioni e strategie vincolanti per molti anni.
Sarebbe quindi opportuno che Ministero dell’Agricoltura, con le Regioni e tutte le istituzioni coinvolte, ponessero molta attenzione alle conseguenza per l’agricoltura del PNRR/Recovery Fund.