La riduzione di perdite e sprechi alimentari è necessaria e urgente, ma non sufficiente
Le varie agricolture indicate da Venturi (2021) come “agricolture ideologiche” vengono spesso criticate perché le pratiche propugnate sono meno efficienti e quindi, producendo meno cibo per unità di superficie, costringerebbero, se adottate su larga scala, a estendere la frontiera agricola a scapito di foreste e altre aree naturali per soddisfare la domanda mondiale di cibo. I sostenitori di tali approcci rispondono spesso che il cibo oggi prodotto viene perduto o sprecato per una porzione pari al 30% e che quindi basterebbe eliminare perdite e sprechi alimentari per compensare la ridotta produttività di sistemi agricoli alternativi. Questa affermazione merita un approfondimento.
La rilevanza di perdite e sprechi alimentari e la necessità di ridurli per migliorare la sicurezza alimentare e la sostenibilità dei sistemi agroalimentari è sottolineata da molti documenti pubblicati da organismi internazionali e organizzazioni nazionali. Per esempio nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 12, sotto-obiettivo n. 12.3 recita: “Entro il 2030, dimezzare lo spreco pro capite globale di alimenti a livello di vendita al dettaglio e consumo e ridurre le perdite di cibo lungo le filiere di produzione e distribuzione, comprese le perdite post-raccolta”. E anche la FIDAF ha più volte sostenuto la necessità e l’urgenza di ridurre perdite e sprechi alimentari e indicato azioni concrete da intraprendere in tal senso (vedi per esempio Pezzoli, 2020).
Ma iniziamo col definire in maniera accurata il fenomeno di cui stiamo discutendo. Secondo l’High Level Panel of Experts on Food Security and Nutrition (organismo dell’UN Committee on World Food Security – CFS ) le perdite e gli sprechi alimentari sono la parte commestibile del cibo che è persa o sprecata. Quindi per perdita e spreco alimentare (in inglese Food loss and waste o FLW) si intende la diminuzione della massa avvenuta ad ogni stadio della filiera alimentare dalla raccolta al consumo di cibo originariamente indirizzato al consumo umano, a prescindere dalle cause che la hanno determinata. Perdite e sprechi alimentari si dividono in:
- perdite alimentari, che sono «le diminuzioni in massa che si riscontrano durante tutte le fasi di produzione agricola, post-raccolta e trasformazione, prima del fase di consumo, di alimenti originariamente indirizzati al consumo umano»;
- sprechi alimentari, che sono «il cibo appropriato per l’alimentazione umana che viene scartato o lasciato deperire nell’ultima parte della filiera alimentare (a livello di consumo finale), a prescindere dalle cause che li hanno determinati».
Altri tipi di inefficienze alimentari – quali le perdite da attacchi di patogeni e parassiti prima della raccolta, l’uso di derrate alimentari per produzione di bioenergia o per alimentazione animale, la sovralimentazione – non sono pertanto incluse nel concetto di perdite e sprechi alimentari, anche se sono ovviamente considerate nelle analisi delle filiere alimentari come importanti problemi da affrontare e mitigare.
La definizione precisa del problema è fondamentale per la sua quantificazione accurata. Il primo studio globale è stato condotto nel 2011 dallo Swedish Institute for Food and Biotechnology per incarico della FAO. L’istituto svedese calcolò che le perdite e gli spechi ammontavano a circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo per anno, pari a circa un terzo del peso della parte edibile della produzione globale di alimenti. Stime del World Resources Institute (vedi qui) misuravano il numero delle calorie – anziché il peso – degli alimenti persi o sprecati e indicavano in circa il 24% l’entità del fenomeno.
Nel 2019 la FAO ha pubblicato il volume The State of Food and Agriculture 2019. Moving forward on food loss and waste reduction, in cui si analizza il fenomeno di perdite e sprechi alimentari e si mette in rilievo la necessità di dati affidabili, completi e sufficientemente disaggregati, in modo da permettere di disegnare efficienti misure politiche e tecniche e di misurare i progressi verso il conseguimento dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 12.3. Il rapporto suggerisce di utilizzare un indice separato per le perdite (FLI o Food Loss Index) e uno per gli sprechi (FWI o Food Waste Index). La pubblicazione stima che le perdite globali ammontino al 14% della produzione agricola mondiale, mentre rimanda a ulteriori studi la valutazione dell’incidenza degli sprechi. L’approccio metodologico differente non permette però una comparazione tra questo dato e la precedente stima, ma comunque apre la strada ad una comprensione più profonda del fenomeno.
Il valore economico del cibo perso o sprecato a livello globale è valutato intorno ai 1.000 miliardi di dollari/anno. La produzione del cibo che viene perso o sprecato comporta inoltre il consumo di una notevole quantità di risorse naturali:
- L’acqua usata per produrre il cibo che viene perduto o sprecato ogni anno nel mondo è pari a circa 250.000 miliardi litri;
- Suolo: considerando che il cibo perduto o sprecato circa il 30% di quello prodotto, si può inferire che l’estensione di suolo agricolo necessario per produrlo il cibo sia circa il 30% della superficie agricola, pari a circa 1,4 miliardi di ettari; questa estrapolazione è alquanto rozza, in quanto mette insieme superficie coltivata e superficie a prato e a pascolo, che ovviamente contribuiscono in misura molto differente al fenomeno, ma la superficie interessata da produzione di cibo non consumato è comunque molto ingente;
- Il cibo perduto o sprecato ogni anno nel mondo è responsabile dell’immissione in atmosfera di circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente.
I benefici conseguibili mediante la riduzione di perdite e sprechi alimentari sono quindi indubbi, ma sarebbero sufficienti a compensare la perdita di produttività agricola causata dal ritorno a pratiche agricole obsolete o dall’applicazione alla produzione di alimenti di ideologie o di filosofie di vario tipo?
La prima considerazione è relativa all’entità del fenomeno: anche se si riuscisse ad azzerare perdite e sprechi – cosa tecnicamente impossibile – non si riuscirebbe a soddisfare l’aumento della domanda globale di alimenti al 2050, stimato dalla FAO nel 50% rispetto alla domanda registrata nel 2013. Se venisse raggiunto, come auspichiamo, l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile sopra ricordato e riuscissimo a dimezzare sprechi e a ridurre le perdite, avremmo conseguito un enorme miglioramento di efficienza, di equità e di rispetto dell’ambiente, ma saremmo veramente lontani da poter compensare eventuali minori efficienze produttive del comparto primario.
La seconda considerazione è riferita alla fattibilità tecnica della riduzione di perdite e sprechi alimentari: il 44% di questo fenomeno avviene nei Paesi in via di Sviluppo, in cui esso è causato soprattutto da inadeguatezza della rete logistica (strade, magazzini, catena del freddo, mezzi di trasporto, ecc.), e solo marginalmente da errati costumi alimentari dei consumatori. Sarebbero quindi necessari enormi investimenti infrastrutturali in zone del mondo in cui gli investimenti sono scarsi e lenti.
In conclusione, dobbiamo perseguire con forza e tenacia l’obiettivo di diminuzione di perdite e sprechi alimentari per migliorare la sostenibilità dei sistemi agroalimentari, ma non dobbiamo al contempo demordere dal conseguimento dell’intensificazione sostenibile della produzione agricola, producendo di più con meno, se vogliamo soddisfare la domanda globale di alimenti. Ben venga il doggy bag quindi, ma non usiamolo come alibi per introdurre pratiche agricole bislacche a bassa produttività.
Molto coerente l’analisi, anche perchè il ritorno a tecniche obsolete non comporterebbe da solo la riduzione degli sprechi e delle perdite. Anzi, potrebbe addirittura aumentarli.
Tenuto conto che, come si accenna, il luogo dove avviene la maggior parte di tali perdite è nei Paesi sottosviluppati per carenza di strutture e di adeguata energia, la vera migliore soluzione dovrebbe essere quella di aiutare concretamente quei Paesi ad accedere allo sviluppo, aiutandoli a realizzare a casa loro quelle strutture necessarie a produrre abbondante energia, a condizioni davvero ragionevoli e sostenibili.
Molti altri sarebbero a quel punto i vantaggi e riscontri positivi, per tutti, noi compresi!