Il mais miracoloso – Storia di un’innovazione tra politica, economia e religione
Cosa si nasconde dietro quel che mangiamo? Questo libro per la prima volta descrive, attraverso l’uso di fonti italiane e straniere, la diffusione nel nostro paese e in Europa di un particolare tipo di innovazione – il mais ibrido –, giunta dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Durante la Guerra fredda, istituzioni, partiti, tecnici, organizzazioni sindacali e Chiesa cattolica furono per questa via coinvolte, in vario modo, in un progetto di modernizzazione delle campagne italiane, che cambiò i modi di produzione e le abitudini alimentari di una nazione lanciata verso i consumi di massa. Emergono così i nodi che caratterizzano lo squilibrato sviluppo economico dell’Italia fino ai nostri giorni in una prospettiva globale.
Premessa
Con la fine della Seconda guerra mondiale, prima tramite i governi militari e l’unrra, poi col piano Marshall, gli Stati Uniti proiettarono sull’Europa in crisi i frutti della rivoluzione tecnologica, economica e organizzativa avviatasi colà dagli anni Trenta. I paesi europei, in questo modo, come ha scritto un compartecipe Manlio Rossi-Doria, si trovarono a disporre di un patrimonio ingente di conoscenze ed esperienze, di ritrovati tecnici, di formule organizzative, bello e pronto per l’uso, purché avessero avuto la forza di vincere l’inerzia della tradizione e della loro congenita disgregazione.
Iniziando ad affermare la propria egemonia economica, politica e culturale, gli Stati Uniti sollecitarono i paesi europei a riorganizzare le diverse agricolture nazionali, spingendoli sulla strada della crescita della produttività e di una convergenza tecnologica considerate, dopo il 1947, elementi decisivi nella costruzione di un solido “blocco” occidentale. Un primo passo per aumentare la produzione fu quello di favorire il trasferimento di innovazioni capaci di incIdere, in breve tempo, sui raccolti. Per questo, l’amministrazione americana non solo puntò a fornire aiuti alimentari alle popolazioni europee, ma decise anche di sostenere programmi di assistenza tecnica e di agevolare la sostituzione delle piante coltivate in Europa con quelle a più alta resa largamente adottate negli usa dopo la crisi del Ventinove.
Una di queste colture, il mais ibrido (hybrid corn o hybrid maize), si era diffuso piuttosto velocemente grazie alle politiche del New Deal promosse dall’amministrazione Roosevelt: all’inizio degli anni quaranta occupava circa il 90 per cento della superficie maidicola dello Stato dell’Iowa e i 2/3 di quella degli Stati occidentali.
Si trattava, sul piano strettamente economico-scientifico, di un’innovazione dalle grandi potenzialità. Con l’incrocio di due o più tipi autofecondati di granturco, all’inizio del Novecento era stato possibile ottenere esemplari identici fra di loro, privi di impurità, raggiungendo in questo modo un’uniformità colturale che poteva risultare funzionale alla meccanizzazione e alla razionalizzazione delle diverse fasi del raccolto. Per il fenomeno del “lussureggiamento” degli ibridi (eterosi), quelle piante manifestavano particolare vigoria e dimensioni maggiori che in passato delle pannocchie e delle foglie. Ma proprio a causa di quei meccanismi il mais ibrido acquisiva anche un’altra particolarità: il suo seme veniva usato una sola volta per ottenere rese superiori alle varietà ad impollinazione libera. Qualora fosse stato comunque reimpiegato, il raccolto sarebbe stato infatti disastroso. Per questo, i contadini lo consideravano una pianta “mulo”, e la semente era riacquistata ogni anno.
Secondo l’idea di una trasformazione sistemica delle pratiche di coltivazione in Europa come in altri paesi del mondo, che trovò il suo massimo punto di riferimento nel discorso pronunciato nel 1949 dal presidente Truman sull’assistenza tecnica (punto iv), gli Stati Uniti erano pronti dunque a condividere con i paesi europei quell’innovazione tecnologica, il cui trasferimento avrebbe tuttavia avuto numerose e inaspettate implicazioni economiche, politiche, sociali e ambientali, destinate a pesare anche nel dibattito contemporaneo sulle biotecnologie.
Il tentativo di americanizzare le agricolture dei paesi europei ebbe infatti molteplici risvolti. La storiografia è in generale concorde sugli effetti modernizzatori dei piani di assistenza economica americani sui sistemi produttivi industriali delle nazioni europee. Ma più ricca di sfaccettature è la modernizzazione dell’agricoltura, per la quale l’intervento sulla produzione ha effetti diretti e immediati sulla qualità e le caratteristiche del cibo, sull’ambiente e quindi sulla vita dei cittadini. Un settore, inoltre, ove più rilevanti che in altri sono gli intrecci tra politica e religione, tra Chiese e Stati nazionali.
Un orizzonte che tenga assieme le implicazioni istituzionali, economiche, religiose, sociali, tecnologiche e ambientali di quella modernizzazione alla luce delle relazioni tra Stati Uniti, Italia ed Europa, vuol essere la stella polare di questo lavoro. La diffusione del mais ibrido e i cambiamenti conseguenti indotti in alcune aree del paese – come si vedrà nei paragrafi che seguono – evidenziano i caratteri di una storia del Novecento durante la quale le classi dirigenti italiane hanno mostrato intraprendenza e apertura verso modelli economici ritenuti più avanzati (come quello degli Stati Uniti) ma anche scarsa capacità di governare contesti e conseguenze, dirette e indirette, dell’innovazione tecnologica importata.
Un primo effetto di quella modernizzazione, fu la ridefinizione dei rapporti tra lo Stato, i tecnici e i ceti rurali produttivi, che a seguito della guerra acquisirono un potere di contrattazione particolarmente forte rispetto alla stabilità dei governi nazionali. Questa forma di “neo-corporativismo” caratterizzò la modernizzazione tecnologica, la riorganizzazione dei servizi dell’Agricoltura, la sperimentazione agraria – «la cui storia è ancora da scrivere» – le relazioni tra il potere politico e le organizzazioni agricole.
L’accelerazione del progresso tecnico incise sia sulla produzione che sull’alimentazione: rese possibile cioè introdurre inediti processi produttivi (le sementi ibride furono presto accompagnate da concimi chimici, diserbanti e macchinari, nuovi metodi di coltivazione e di allevamento, di lavorazione del mais e di assistenza ai contadini) e individuare caratteristiche innovative per gli alimenti basati sul granturco. Tuttavia, il ritmo di adozione delle innovazioni fu ben più rapido dell’acquisizione di una piena e documentata consapevolezza dei loro eventuali effetti sulla salute degli uomini, come degli animali. Nello stesso senso, la continuativa ricerca della crescita della produzione e della produttività, fu portata avanti da politici e tecnici con poca attenzione verso le problematiche ambientali e sanitarie che quelle stesse tecnologie sollevavano.
L’obiettivo della quantità prevalse a lungo su quello della qualità, della preservazione di saperi e sapori. E tutto ciò ingenerò in alcune aree del paese un peculiare effetto di rifiuto, di particolare interesse per comprendere anche la storia del Novecento durante la Guerra fredda.
Contraddicendo una consolidata idea che l’apertura del mercato e l’introduzione di tecnologie produttivistiche potessero sollecitare automaticamente la costruzione di un settore competitivo, la diffusione del mais ibrido non si tradusse, per molti anni, in capacità produttiva concorrenziale con l’estero, né rafforzò la sovranità alimentare nazionale. L’innovazione viaggiò cioè in parallelo alla liberalizzazione commerciale decisa dopo la guerra in reazione all’autarchia fascista; e durante gli anni sessanta e settanta prese corpo, per quella via, una singolare forma di dipendenza tecnologica dall’estero e dalle sementiere multinazionali, aggravata dalle crescenti differenziazioni tra il Nord e il Sud Italia.
Sul piano interno, soprattutto durante gli anni più duri della Guerra fredda, quell’innovazione finì per essere elemento divisivo: a livello territoriale, per le dinamiche dello sviluppo economico, che favorirono l’aggregazione di interessi e la concentrazione della produzione nell’area della “Padania” rispetto al Sud; a livello politico e culturale, per la contrapposizione tra le sinistre ispirate al modello dell’agricoltura sovietica e le forze governative impegnate ad esaltare acriticamente i successi produttivistici dell’agricoltura americana; nella gestione territoriale, infine, sul piano pratico come su quello simbolico, di quell’innovazione tecnologica, per la creazione o il rafforzamento di dipendenze e appartenenze politiche, sindacali e religiose. Innovazione e tradizione, allo stesso tempo, hanno dimostrato di essere, fin dall’inizio dell’età repubblicana per arrivare agli albori del xxi secolo, categorie politiche declinate dai diversi partiti in modo da costruire, pur da punti di vista e con interessi diversi, un’idea di modernità basata sul concetto di cambiamento.
La scelta tecnologica fatta dall’Italia dopo la guerra non fu solitaria, ma venne condivisa anche da altri paesi europei, come la Francia, divenendo in poco tempo parte integrante dell’Europa che nasceva. Un’Europa che pure si avviò, dagli anni Settanta in poi, a contestare la centralità americana e a disciplinare in modo più stringente di quanto non facessero gli Stati Uniti le regole commerciali, i diritti dei consumatori, le politiche ambientali e sanitarie.
Le linee principali di questo processo modernizzatore giungono con insospettabile continuità fino ai tempi attuali a generare categorie interpretative, politiche, interessi economici e fedeltà transnazionali. Nel tentativo di diffusione degli ogm in Europa oggi troviamo gli stessi attori – Stato nazionale, Chiesa cattolica, amministrazione americana, organizzazioni degli interessi – coinvolti nell’“operazione” mais ibrido e le stesse logiche alla base. Il dibattito che ne è sorto in Italia si muove lungo linee di frattura introiettate nel corpo della nazione, dalla televisione alla stampa, al modo stesso di concepire la rappresentanza degli interessi e la “missione” dello scienziato. Non si tratta dunque solo dell’innovazione in sé, nel suo aspetto scientifico, ma di un sistema di relazioni politiche, culturali e sociali, storicamente stratificatesi, che ne condizionano l’analisi, l’accettazione o il rifiuto 7.
Finita la Guerra fredda, in una diversa situazione internazionale, esistono tuttavia nuovi spazi di manovra, nazionale ed europea, prima impossibili. È in questo contesto che va inserita, in ultimo, la stessa attività di resistenza, se non di riconversione “colturale” (e culturale), promossa in vari paesi europei nel tentativo di affermare un diverso modo di intendere l’agricoltura e l’alimentazione, con un occhio costantemente rivolto all’obiettivo della qualità e della specificità produttiva. Un orizzonte, forse, che animerà anche la prossima Expo 2015, Nutrire il pianeta, energia per la vita, e che proietterà, chissà, l’Italia in un nuovo protagonismo all’interno dell’Europa unita.
Questo libro trae origine dalle diverse ricerche realizzate negli archivi nazionali di Washington nel lontano 2007, ove, studiando la riforma agraria italiana, mi ero imbattuto nelle attività dell’assistenza tecnica del piano Marshall. Da allora, in questi anni, frequentando altri archivi, italiani e stranieri, ho avuto molteplici occasioni di confrontarmi con studiosi e studenti su tale argomento, affinando e approfondendo una tematica storica ricca di sfaccettature e di ricadute sulla contemporaneità. Il dipartimento di Storia, Culture e Religioni alla “Sapienza” è stato in molte occasioni luogo di importanti scambi e riflessioni. Qui Piero Bevilacqua mi ha costantemente sollecitato a ripensare e ad arricchire le categorie della storia dell’agricoltura e dello sviluppo novecenteschi, mentre gli amici Properzio Nervo, Fabrizio Nunnari e Francesco Palaja hanno contribuito a rendermi meno solo nelle mie speculazioni.
Un primo nucleo di questa ricerca è stato presentato al v incontro nazionale dei “Cantieri di storia” organizzato dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (sissco) a Trieste (23-25 settembre 2009), discusso a più riprese con i miei studenti durante i diversi insegnamenti tenuti presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Bra) e infine presentato, in una versione più avanzata, in seminari e lezioni nel corso 2012-13 di “Sistemi agricoli e relazioni internazionali” tenuto da Guido Fabiani presso l’Università di Roma Tre. In queste diverse occasioni, ho ricevuto stimoli, indicazioni e incoraggiamenti quanto mai utili.
Sono debitore di indicazioni bibliografiche, riflessioni comuni e osservazioni con Gianfranco Armando, Anna Carbone, Giorgio Caredda, Francesco Cassata, Franco Cazzola, Leandra D’Antone, Michele De Benedictis, Fabrizio De Filippis, David Ellwood, Emma Fattorini, Umberto Gentiloni Silveri, Agostino Giovagnoli, Marcello Gorgoni, Claudio Malagoli, Alfonso Pascale, Carlo Spagnolo e Sara Ventroni. La responsabilità di quanto scritto ovviamente è solo mia.
Grazie poi all’assistenza dei numerosi archivisti e bibliotecari con cui ho avuto modo di lavorare, dei quali ricordo con simpatia Gabriella Bonini, Giovanna Bosman, Mario Cavriani, Nella Eramo, Ester Gaetano, Davide Gaspari, Sully Kuisel, Cecilia Magnabosco, Alfie Paul, Cristiana Pipitone, Phil Runkel, Maurizio Targa. A mio padre, Luigi, devo tanto per l’attenta lettura e i consigli sempre puntuali e costruttivi, modello intellettuale e di vita; ai miei fratelli, Leonardo e Marco, per il prezioso lavoro su grafici e tabelle. Valentina Iacoponi ha infine rivisto il tutto, contribuendo a rendere lo scritto più leggibile e organico.
Questa pubblicazione è stata sostenuta finanziariamente dalla Fondazione Istituto Gramsci, cui sono grato anche per la grande disponibilità a rendere fruibili materiali e conoscenza, alimentando uno spazio di discussione sempre più prezioso in un paese come il nostro. Ma non avrebbe avuto la luce senza la pazienza e l’amore di mia moglie, Federica, e Lorenzo, l’ultimo arrivato, che ci fa dormire poco, ma che pure ci dà una grande speranza per vivere il presente e guardare al futuro.
Edizione: Roma 2014 collana: Studi Storici Carocci ISBN: 9788843073412
Un pensiero su “Il mais miracoloso – Storia di un’innovazione tra politica, economia e religione”