I.T.A.L.I.A. – Geografie del nuovo made in Italy

 “Hello Earth! Can you hear me? #WakeUpPhilae”. Dietro questo ‘buongiorno’ arrivato su Twitter da una cometa lontana 500 milioni di km c’è un robot che parla anche italiano. Come quello, figlio dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), che ha rappresentato l’Europa alla prima edizione del Darpa Robotics Challenge, competizione mondiale dell’Agenzia per la ricerca del dipartimento alla Difesa Usa sulla robotica da disastro. E parla italiano l’ultima conquista della fisica delle particelle: neutrini di tipo tausono stati osservati dai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’INFN nel fascio di neutrini muproveniente dal Cern di Ginevra; a conferma che i neutrini, le più elusive delle particelle, viaggiando su lunghe distanze attraverso la materia oscillano cambiando “sapore”.

 In una sola settimana l’Italia è stata tra i protagonisti di momenti scientifici o tecnologici che meriterebbero (alcuni ci finiranno di certo) di figurare nei libri di storia. C’è un’Italia di cui spesso non si ha consapevolezza e che fa cose di cui essere orgogliosi. I.T.A.L.I.A., di Fondazione Edison, Fondazione Symbola e Unioncamere, nasce per raccontare questa Italia. È un viaggio tra i tanti talenti, non di rado poco conosciuti, del nostro Paese: fatti di tradizione e di capacità innovative, di memoria e di immaginazione, di creatività, in cui la competitività fa leva sulla green economy e la cultura, si costruisce con le comunità, fa leva sulla bellezza e la coesione sociale, parte dai territori e grazie ad una caparbia vocazione alla qualità, arriva al mondo.

Nomen omen, dicevano i romani: il destino sta nel nome. Per I.T.A.L.I.A. ci siamo fidati della saggezza romana. Usando il nome del nostro Paese come acronimo del nuovo made in Italy, dall’Industria alTurismo, dall’Agroalimentare al Localismo, dall’Innovazione all’Arte e alla cultura: lì, nella sua identità e nelle sue capacità apprezzate dal mondo intero, sta il futuro dell’ltalia. Questo acronimo, le storie che racchiude, servono a disegnare una rotta, ad indicare un’idea di futuro per il nostro Paese. Necessaria, soprattutto ora: con la  crisi quasi alle spalle e il mare aperto della globalizzazione davanti. L’Italia, certamente, non deve dimenticare i tanti problemi aperti da tempo: non solo il debito pubblico, ma le disuguaglianze sociali, la disoccupazione, l’illegalità, una burocrazia spesso opprimente, il Sud che perde contatto. Ma non può permettere che il disfattismo di moda o modelli di sviluppo che non ci appartengono mettano in soffitta i nostri punti di forza, spesso ignorati dagli stessi italiani (un recente sondaggio Ipsos ci dice che il 70% dei nostri connazionali ignora che il nostro sia un Paese industriale). Quei punti di forza che nelle ricerche su Google relative ai prodotti made in Italy ci fanno registrare, tra il 2011 e il 2014, una crescita boom di quasi il 20%, specie in Paesi geograficamente lontani come Giappone, Emirati Arabi, Stati Uniti, Russia e Brasile. Se non vuole perdere occasioni storiche come questa, l’Italia deve scommettere sull’innovazione e le più recenti tecnologie, deve incentivare la ricerca, deve cogliere le opportunità che la voglia crescente di sostenibilità e i grandi cambiamenti negli stili di vita ci offrono. Senza, però, perdere ciò che la rende unica: le tradizioni, il saper fare radicato nei territori e nelle comunità, la qualità della vita, la bellezza come esperienza diffusa. Nomen omen: l’Italia deve fare l’Italia.

E parlare di punti di forza può non essere sufficiente a spiegare cosa sta avvenendo in Italia. Bisogna parlare di primati, di record, di avventure produttive e culturali. Abbiamo il quinto surplus commerciale manifatturiero con l’estero al mondo, 99 miliardi nel 2014, dietro alla Germania e a giganti come Cina, Giappone e Corea: il resto del mondo ci guarda da lontano. Qualcosa, forse, vorrà dire. Per esempio che la qualità dei nostri prodotti cresce, continuamene, e i mercati mondiali pagano di più per averli: dall’introduzione dell’euro, infatti, l’Italia ha visto i valori medi unitari dei suoi prodotti salire del 39%, il Regno Unito del 36%, la Germania del 23%. Siamo in grado di viaggiare ai confini del cosmo – il risveglio di Philae sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko – e di conquistare lo scettro per numero di siti patrimonio dell’umanità Unesco: l’ultimo dei quali, Langhe-Roero-Monferrato, è una straordinaria sintesi del nostro Paese, in cui la bellezza è natura ma anche lavoro dell’uomo e prodotto della sua cultura. È questo mix, antico e insieme innovativo, che ci porta ad essere il primo Paese dell’Eurozona per capacità di attrarre i flussi turistici che vengono da lontano, quelli più promettenti: nel 2013 sono stati oltre 56 milioni i pernottamenti dovuti ai visitatori extra Ue. Siamo la meta preferita dei turisti dal Giappone, da Cina, Brasile, Stati Uniti e Australia.

Mentre, nonostante i tanti limiti, ‘cavalchiamo’ il nuovo turismo mondiale, sappiamo anche prendere le redini della riconversione verde dell’economia: Eurobarometro ha stimato che dall’anno scorso il 51% delle nostre PMI ha almeno un “green job”, quasi quanto Germania e Francia insieme. Siamo leader mondiali nella bioplastica, con esperienze come Novamont e Mossi&Ghisolfi. Il nostro sistema produttivo ha incorporato la green economy come un fattore competitivo: dall’inizio della crisi, oltre 340mila aziende (il 22% del totale) hanno investito in questo senso, e nella manifattura si raggiunge il 33%. Arriviamo cosìai vertici dell’Ue per eco-efficienza, con 104 tonnellate di CO2 ogni milione di euro prodotto (la Germania ne immette in atmosfera 143, il Regno Unito 130) e 41 di rifiuti (65 la Germania e il Regno Unito, 93 la Francia). Siamo, poi, campioni europei nell’industria del riciclo: a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti su scala europea, nel nostro Paese ne sono stati recuperati 24,1 milioni, il valore assoluto più elevato tra tutti i Paesi europei (in Germania 22,4 milioni).

Facendo perno sul riciclo e l’innovazione, l’Italia nutre esperienze che già ci parlano di economia circolare, di un nuovo modello di sviluppo: in cui si usano meno risorse e più sapere. In cui la coesione, le comunità, i territori sono parte integrante della capacità di produrre cose che piacciono al mondo. Non a caso in Europa siamo, tra i Big Ue, il primo Paese per quote di addetti nell’economia sociale. Un modello che coglie quell’economia delle responsabilità, della sobrietà e della condivisione che si fa strada. È così che l’Italia, già oggi, può declinare quel “rifiuto dello scarto” e quell’attenzione alle cose del creato che papa Francesco mette al centro della sua enciclica Laudato si’.

L’economia circolare è un’occasione decisamente favorevole per un Paese come il nostro, campione della manifattura ma povero di materie prime. Una sfida che può contare anche sulla capacità tutta italiana di progettare e realizzare beni, servizi, spazi secondo le regole della bellezza, del gusto, della modernità. E che vede, ad esempio, anche negli interventi per mitigare gli effetti dei mutamenti climatici una straordinaria occasione per innovare il proprio sistema produttivo.

La green economy permea tutti i settori della nostra economia. A partire dall’agroalimentare. L’agricoltura italiana è tra le più sostenibili in Europa – emette il 35% di gas serra in meno della media Ue – e fra le più sicure, con una quota di prodotti che presentano residui chimici inferiore di quasi 10 volte rispetto alla media europea. Siamo primi al mondo per prodotti ‘distintivi’, con 264 prodotti Dop e Igp e 4.698 specialità tradizionali regionali; e campioni europei del biologico, per numero di agricoltori e numero di imprese (43.852, quasi una su cinque in Europa). E è anche per questi motivi che la nostra agricoltura, nel 2014, riesce a confermare il suo primato in Europa, insieme alla Francia, per valore aggiunto (31,6 miliardi di euro). Siamo primi al mondo nell’export del vino, con 5,11 miliardi di euro (+1,4% tra 2013 e 2014). Abbiamo il surplus più alto del pianeta per quanto riguarda le paste alimentari (2,7 miliardi), le mele (910 milioni), i prodotti di pasticceria e panetteria (756 milioni), le uve fresche (724 milioni), i gelati (127 milioni).

Tutto il made in Italy ha i suoi record. La nautica, sposando efficienza e design, assorbe oltre un quinto dell’export globale, e guadagna il primo posto al mondo, per surplus, tra i competitor. L’arredo-casa, nonostante un mercato domestico letteralmente collassato, ha tenuto durante la crisi conquistando nuovi mercati: anche grazie al fatto di essere leader in Europa per investimenti in R&S, con 10 miliardi è secondo al mondo per saldo della bilancia commerciale, preceduto solamente dalla Cina. Nella farmaceutica l’Italia è un hub produttivo senza rivali: capace di attrarre investimenti e produzioni, tanto da registrare nell’export un balzo di 8,1 miliardi di dollari  dal 2010 al 2014, crescita che non ha pari al mondo.

Ci sono alcuni luoghi comuni troppo poco generosi verso il nostro Paese che vanno smentiti. Si dice che la ricerca non è di casa, qui in Italia. In effetti il dato percentuale relativo agli investimenti in ricerca rimane al di sotto della media Ocse. Ma in valori assoluti l’Italia è quarta in Europa, ed è uno degli otto Paesi Ocse ad avere una spesa in ricerca e sviluppo superiore ai 20 miliardi di dollari. Non basta, questo è certo, ma non siamo all’età della pietra: non siamo un Paese statico e pigro, ma un Paese diverso dagli altri, con imprese di specializzazione diversa e con modelli di sviluppo e trasferimento dell’innovazione diversi. Non deve allora sorprendere che, recentemente l’Eurostat ha evidenziato nelle imprese italiane una spiccata propensione all’innovazione: con il 42% di imprese innovatrici, l’Italia si colloca al di sopra della media UE (pari al 36%), non ai livelli di Germania e dei Paesi del Baltico, ma meglio di Francia, Regno Unito e Spagna. Sarà anche per questo che la meccanica, con 53 miliardi di dollari, è terza nella graduatoria internazionale per surplus, preceduta dai competitor tedeschi e giapponesi ma davanti ai cinesi e sud coreani. Per ben 235 prodotti sui 496 del settore (indice Fortis-Corradini, Fondazione Edison©), detiene il primo, secondo o terzo posto al mondo per saldo della bilancia commerciale.

La tenuta e la capacità di reazione della nostra economia deve molto ai distretti e alle PMI: a lungo indicati come uno dei mali del Paese, sono invece il tessuto connettivo della nostra capacità produttiva. È grazie alle PMI che Brescia e Bergamo sono le prime due province manifatturiere più specializzate d’Europa (per valore assoluto della produzione), davanti anche alla tedesca Wolfsburg, che ospita il cuore della Volkswagen (e seguite, nelle prime 20, da altre 9 province tricolori). Quello delle PMI, se lo guardiamo senza pregiudizi, è un mondo che non ci parla solo di competitività (e tanta), di fatturati e di export: ma che allude – a volte incarna – un modello di sviluppo decisamente più a misura d’uomo, che sa tenere insieme la capacità di conquistare nuovi mercati con la valorizzazione del capitale umano, che della coesione sociale, dei rapporti coi territori e le comunità, dei diritti, ha fatto un fattore produttivo determinante. Questo modello può essere, oltre i confini dell’agroalimentare, il vero messaggio dell’Expo di Milano.

Bellezza, cultura, qualità, innovazione e green economy ci consegnano le chiavi della contemporaneità e delle sfide del futuro: perché assecondano la voglia crescente di sostenibilità e di made in Italy dei consumatori globali, e danno risposte ai grandi cambiamenti negli stili di vita e nei modelli di produzione: dall’economia della condivisione – chi avrebbe immaginato che oltre 100mila milanesi avrebbero scelto il car sharing? – alle rinnovabili e alla generazione diffusa – da cui già oggi arriva il 40% dell’elettricità nazionale – alimentando esperienze produttive che aprono la via all’economia circolare. Milano, capitale della creatività e città dell’EXPO, non solo è, insieme a Vienna, in cima alla classifica delle metropoli europee (sopra il milione di abitanti) per raccolta differenziata, ma ha anche, fra le grandi città, il primato mondiale per numero di persone servite dalla raccolta dell’organico. E insieme a Lima si candida anche, coi sui 6 fab lab, a guidare la lista delle città (e seguita da Parigi, Boston e Tokyo) più all’avanguardia in questo ‘movimento’.

“Se fossimo ciò che siamo capaci di fare, rimarremmo letteralmente sbalorditi”, ha scritto Thomas Edison, uno che di certo se ne intendeva, così come se ne intendeva un italiano, Giuseppe Colombo, che fu tra i primi a portare i brevetti di Edison in Europa,  fondando la Edison, società che fu, alla fine dell’ottocento, uno dei principali motori dello sviluppo industriale e tecnologico del nostro Paese. Quella che raccontiamo nelle pagine seguenti è un’Italia sbalorditiva. Di questa Italia dovremmo essere orgogliosi. Da questa Italia dovremmo prendere esempio per alimentare la spinta alla qualità e all’innovazione che ha fatto grande il Paese. È questa l’Italia che, forte anche dei messaggi che arrivano da papa Francesco, può giocare un ruolo da protagonista alla Cop21 di Parigi. http://www.symbola.net/html/article/italia2015/videos

 26 giugno 2015

Ritorno dai campi, Vincenzo Cabianca
Ritorno dai campi, Vincenzo Cabianca

Redazione Fidaf

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