I misteriosi cerchi di pietra di Lampedusa
“Esistono dunque di certo, s’anche invisibili, i venti: essi flagellano il mare: essi la terra, le nubi essi, che con improvviso turbine squarciano e spazzano via” (Lucrezio, “De Rerum Natura”, libro I). E i venti soffiano, quasi incessanti, anche sulla piccola isola di Lampedusa (la percentuale di giorni di calma assoluta è di appena il 4%). Quelli più frequenti sono la Tramontana, il Grecale, lo Scirocco, il Libeccio e il Maestrale (quest’ultimo, da nord-ovest, predomina sugli altri, insieme alla Tramontana che spira da nord). La velocità media è intorno a 20 chilometri orari con punte che possono superare i 60 km/ora.
I venti influiscono in modo continuo sull’attività agricola. Quelli che soffiano ad una velocità superiore a 10 km/ora possono ostacolare la crescita stessa delle piante, coltivate e spontanee.
Accade così che nella più grande delle isole pelagiche, lo spirare frequente del vento e un clima piuttosto caldo e arido (a Lampedusa cadono in media 300-350 mm di pioggia all’anno, distribuite mediamente in una quarantina di giorni concentrati fra ottobre e febbraio) rendono difficile la pratica di un’agricoltura da reddito o addirittura di mera sussistenza.
Normalmente, per superare la carenza di acqua si ricorre all’irrigazione; invece, per proteggere le piante dall’azione del vento si possono adottare varie pratiche difensive. In una tavoletta sumera, datata intorno al 3.000 a.C., si parla dei danni che il vento può provocare alle piante e si suggerisce anche un possibile rimedio: circondare il campo coltivato con alberi frondosi. Le barriere frangivento (attuate con alberi ma anche siepi di piante sempreverdi, staccionate di legno, pannelli di metallo o pvc, reti a maglia fitta, ecc.) sono, di norma, il mezzo per difendersi dai venti. Fra le barriere frangivento vanno annoverati anche i muri di recinzione, più o meno alti e, come e se tali, forse anche i cosiddetti “cerchi di pietra” di Lampedusa (“timpuni”, cioè zolla di terra dissodata, nel dialetto locale e siciliano) (Fig. 1), intorno ai quali però ancora non si è avuto tempo e modo di fare completa chiarezza nonostante siano lì da diversi secoli (se non millenni) e nonostante la loro indiscutibile rilevanza nella storia antica di Lampedusa.
Il primo ad occuparsene è stato l’archeologo inglese Thomas Ashby (1874-1931), il quale, nel giugno del 1909, mentre si trovava per lavoro a Malta, organizzò un rapido sopralluogo a Lampedusa. Nonostante la brevità della spedizione (durata solo tre giorni), Ashby fece alcune interessanti scoperte. Ad esempio, gli riuscì di individuare quelli che secondo lui erano i segni di un popolamento preistorico (ca. 4.800 a.C., la datazione stimata degli insediamenti) nell’isola pelagica. Tali segni erano costituiti da alcune antiche strutture di pietra che egli riconobbe come resti di capanne preistoriche. Più esattamente Ashby descriveva tali resti come “fondi di capanne di forma sub-circolare o ellittica le cui mura perimetrali erano formate da blocchi ortostatici di pietra calcarea locale, generalmente a doppio parametro con terra e sassi che riempivano lo spazio tra le due file concentriche di pietre” (Ratti, 2015). In qualche (raro) caso, sopra i blocchi ortostatici si vedeva l’inizio di muri costruiti con mattoni in pietra rozzi e irregolari con ampi spazi fra di loro. Il diametro interno delle presunte capanne variava per lo più da circa 2 mt. a circa 10. I ruderi osservati da Ashby erano presenti a gruppi, o anche isolati, in diverse parti dell’isola, talvolta alla sommità di terrazzi poco elevati, più spesso sui fianchi scoscesi di modeste alture. L’elevato numero di “cerchi di pietra” (circa 250 cerchi quelli ancora esistenti, raccolti in 35 siti distribuiti su tutta l’isola, da Capo Ponente a Capo Grecale: Diceglie 1994) (Fig.- 2) permise all’archeologo inglese di desumere che Lampedusa doveva essere densamente (forse anche troppo) popolata in epoca preistorica.
Dopo Ashby ad occuparsi in maniera sistematica e coordinata dei ruderi di Lampedusa sono stati la Regione Sicilia e la Soprintendenza di Agrigento (unica eccezione, la casuale scoperta nel 1971 di un fondo di capanna del periodo neolitico: G. Radi, 1972). Così, a metà degli anni ’80 del secolo scorso parte una campagna di scavi (durata fino al 1994) sui siti di età romana dell’isola. La ricerca archeologica, affidata alla dott.ssa De Miro della Regione Sicilia, porta alla luce i resti di abitazioni del periodo tardo romano in più punti dell’attuale paese di Lampedusa, un impianto per la salagione del pesce e, forse, per la produzione di “Garum”, sull’altura che domina su cala Salina e una necropoli ipogeica paleocristiana presso il porto vecchio (A. De Miro e C.A. Nero, 1988-89; A. De Miro, 1994). La squadra di archeologi si occupò anche dei fondi di capanna di Ashby. In particolare, fu effettuato uno scavo in due di essi, in località Capo Grecale, allo scopo di ottenere elementi utili al loro inquadramento cronologico e funzionale. I risultati furono al riguardo deludenti perché non furono rinvenuti elementi che permettessero di ascrivere le strutture oggetto di studio ad antiche abitazioni. Quale dunque la funzione dei cerchi di pietra di Lampedusa?
De Miro pubblica (1994) nei “Quaderni dell’Istituto di Archeologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina” una estesa relazione sulla ricerca archeologica effettuata a Lampedusa. Nella relazione l’archeologa esamina numerose ipotesi di lavoro; in particolare, confronta i circoli di pietra con costruzioni preistoriche, in massima parte di uso funerario o militare e finisce per escludere la possibilità “di rintracciare analogie tra le costruzioni di Lampedusa e i monumenti ad impianto circolare in tecnica a secco diffusi nelle regioni dell’Africa settentrionale e nel Sahara centrale, o con le varie espressioni dell’architettura megalitica presenti in molte parti del mondo”. Più precisamente, viene scartata l’ipotesi che i cerchi di pietra possano aver svolto una funzione funeraria perché nessuno di essi sembra aver conservato traccia alcuna di sepoltura al loro interno. Vengono altresì scartate alcune altre possibili ipotesi: ad es., un loro utilizzo come recinti per il bestiame o come deposito a scopo agricolo per la prevalente assenza di aperture nel cerchio di pietre; o anche un utilizzo come aia visto il loro numero elevato e la loro associazione in complessi più o meno estesi.
De Miro passa allora ad esaminare la situazione da un differente punto di vista, più strettamente agricolo, e trova un elemento di somiglianza fra i circoli di Lampedusa e talune strutture frequenti nel deserto del Negev il quale è caratterizzato, da un punto di vista climatico, da poche piogge concentrate in inverno e da una estate arida (ca. 300 mm in tutto l’anno nel Nord-Ovest del deserto e solo 25 mm nell’estremo Sud, vicino a Elat). Le strutture del Negev a cui si riferisce De Miro, in particolare i cumuli di pietra chiamati in arabo teleilat el-anab e, fra questi, i cosiddetti flowerpots (una sorta di contenitori circolari riempiti di terra e ghiaia usati, forse, per allevare viti o anche alberi), i più simili ai circoli di pietra, sarebbero stati il prodotto secondario di un’azione di spietramento al fine di accelerare il processo di erosione sui pendii collinari e permettere un maggiore e più rapido accumulo di terra (e di acqua) all’interno dei wadis sottostanti (P. Mayerson, 1959, 1960; Y. Kedar, 1956, 1964; M. Evenari, L. Shanan, S. Tadmor, 1971).
Nell’opinione di De Miro l’avvicinamento delle strutture del Negev a quelle dell’isola di Lampedusa sono giustificate dal fatto che anche sull’isola pelagica le condizioni climatico-ambientali non erano e non sono ancora oggi del tutto propizie alla pratica dell’agricoltura.
In breve, scarsità di acqua e, soprattutto, forti e continui venti, rappresentano due ostacoli formidabili, ieri come oggi, alla coltivazione delle piante a Lampedusa.
Ed ecco allora i timpuna, la risposta dei primi agricoltori di Lampedusa, verosimilmente in epoca paleocristiana, all’imperversare dei venti (piuttosto che alla scarsità di piogge): piccole aree circondate da muri ad andamento circolare o ellittico alti in gran parte solo 50 cm, ma che potevano forse arrivare anche a 100-150 cm.
Ma se è incontrovertibile il fatto che il vento è un fattore limitante la coltivazione delle piante, a Lampedusa come altrove, non è altrettanto incontrovertibile, io temo, che la soluzione sia stata trovata nei timpuna, anche se, ancora oggi, gli agricoltori del posto elevano strutture curvilinee di pietra del tipo dei timpuna per proteggere le piante (in questo caso viti) dal vento (Fig. 3). In effetti diverse caratteristiche dei cerchi di pietra sollevano qualche dubbio circa la loro effettiva utilizzazione come barriere frangivento: il posizionamento di diversi di essi (la maggior parte) in luoghi fra i più sfavorevoli dell’isola per la coltivazione di piante (ma anche per viverci) quando invece sull’isola c’era abbondanza (relativamente ad una popolazione di limitata dimensione) di siti favorevoli alla crescita delle piante (le numerose depressioni vallive presenti sull’isola, ben riparate dalla furia dei venti); l’altezza stessa del muro di recinzione adatta a proteggere solo piante di taglia modesta e neanche in maniera molto efficiente; il fatto che talvolta i muri circondano (oggi) solo una lastra calcarea e non del fertile terreno (ma con il tempo lo strato di terreno fertile potrebbe essere andato perduto); lo spessore stesso dei muri talvolta esageratamente elevato per una barriera contro il vento (fino a 1,2 metri); ecc.
Scrive De Miro e non si può non essere d’accordo: “Che i timpuna possano essere stati davvero utilizzati per piantarvi viti, o più probabilmente alberi è certamente nulla più che un’ipotesi da verificare”. In effetti, altri autori (vedi ad es. Diego Ratti, 2015) sposano ancora oggi l’ipotesi primariamente avanzata da Ashby e cioè che gli anelli di pietra non sono altro che i resti di capanne preistoriche o pensano che si tratti (almeno quelli più grandi di 40 e più metri di diametro combinati con anelli di minore diametro) di osservatori astronomici utilizzati per riconoscere i periodi dell’anno più idonei per attività come la semina e la mietitura.
C’è dunque ancora grande incertezza intorno alla funzione dei cerchi di pietra di Lampedusa. Forse erano abitazioni, forse luoghi di coltivazione di piante, forse semplici barriere contro il vento, forse orologi di pietra, forse aie, forse contenitori di terra e pietrame, forse ovili, forse sia una cosa che l’altra o altro ancora, magari in periodi storici diversi.
Certamente sono stati il frutto dell’ingegno dell’uomo in risposta ad una specifica esigenza, fosse anche del solo spirito; meriterebbero come tali maggiore attenzione e miglior custodia (al momento non sono né segnalati sul territorio dell’isola né protetti in alcun modo) prima che il tempo e l’incuria della gente li condannino alla definitiva scomparsa e all’oblio…