Diversi per cambiare… e restare gli stessi
In un recente intervento alle giornate di studi “La cultura delle piante da fine 900 a Expo”, dovendo intervenire sul tema “Biodiversità, agricoltura ed Esposizione di Milano 2015”, non ho potuto fare a meno di riflettere su due antinomie piuttosto interessanti.
La prima riguarda la natura stessa e l’utilità della diversità a livello squisitamente biologico. Nel passare dalla biodiversità intraspecifica a quella ecosistemica si assiste al rovesciamento del paradigma utilitaristico: la prima consente agli organismi di una specie di rispondere a determinate pressioni selettive, con la conseguenza che quanto maggiori sono le variazioni genetiche tanto più è facile per le popolazioni resistere e adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali; la seconda, al contrario, è finalizzata alla stabilità, cosicché quanto più è ricco un ecosistema, con le sue gradazioni interne fatte di associazioni di specie adattate ai fattori microclimatici e biotici che caratterizzano quell’ambiente, tanto più esso è stabile. La stessa idea di biodiversità, secondo l’altezza dello sguardo, ci interessa perché le specie possano cambiare oppure perché gli ecosistemi possano mantenere la maggiore stabilità possibile.
La seconda riguarda l’approccio economico con cui l’uomo si avvicina al tema, in particolare in campo agricolo. Il ruolo della biodiversità vegetale nei processi di domesticazione e selezione delle specie e delle varietà utili, attività che è nata con il nascere dell’agricoltura e che si è andata raffinando nei secoli in modo da sfruttare le strategie della natura e accelerare i progressi della selezione naturale per scoprire e fissare varianti delle specie edibili sempre migliori per qualità e quantità, è ancora oggi essenziale e attivamente ricercato e protetto. Ma nel momento in cui i risultati diventano oggetto di attività produttiva siamo costretti a cercare la costanza e l’uniformità per gestire con successo le tecniche colturali, la difesa dai parassiti e dai patogeni, la raccolta e la conservazione, la valorizzazione mercantile e industriale del prodotto agroalimentare. Anche qui assistiamo al capovolgimento del ruolo.
Quindi se da un lato occorre la massima diversità genetica per potere scegliere i migliori e potere incrociare gli individui con le caratteristiche più interessanti da ricombinare in un’unica varietà, dall’altro, una volta compiuta questa operazione, il coltivatore auspica invarianza e regolarità confinando l’idea stessa di biodiversità al margine del campo coltivato dove la natura può esprimersi con poche interferenze in una sostanziale alterità di luoghi e di funzioni non strettamente e direttamente indispensabili all’agricoltura, ma per questo non meno importanti da altri punti di vista.
Come professionisti dottori agronomi e dottori forestali essere al centro di questi conflitti comporta grandi opportunità professionali ma molta responsabilità, anche di carattere etico; implica, oltre alla conoscenza della materia, discernimento per gli interessi in gioco, economici, ambientali, sociali e culturali, con l’obiettivo di mantenere in equilibrio i processi di conservazione della vita.