Chi siamo e perché siamo così. L’homo sapiens alla conquista della Terra

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Introduzione

In meno di cinquecento anni, gli ultimi della nostra storia, il genere umano ha sofferto di tre grandi delusioni. Ha dovuto prendere atto di non essere al centro dell’universo, di avere come progenitori animali ormai estinti, secondo un processo sostanzialmente governato dal caso, e di essere guidato nei propri comportamenti da pulsioni inconsce. Ma, più che nei confronti di Copernico e di Freud, è su Darwin che converge il nostro risentimento, tanto che la sua teoria, ormai accettata dal milieu scientifico, fatica ad affermarsi presso la pubblica opinione. Ciò è comprensibile, anche se errato, vista la nostra millenaria, radicata convinzione di essere qualcosa di unico, qualitativamente diverso da ogni altra forma di vita, perché dotati di una mente, di un’anima, di creatività e di libero arbitrio.

Per risollevarci dalla frustrazione che deriva dal dover accettare che, in fondo, siamo soltanto delle scimmie glabre, siamo in possesso di un solo strumento, questo sì disponibile soltanto a noi: la cultura. E la cultura risulta un’arma quanto mai preziosa anche per capire, e, entro certi limiti, mitigare, i conflitti che si generano in noi, in possesso di un patrimonio genetico sostanzialmente rimasto immutato da circa duecentomila anni, quando il nostro habitat era radicalmente diverso da quello attuale, reso tale proprio da noi stessi.

Risaliamo all’indietro la nostra storia, poi la preistoria, fino ad imbatterci in un’altra disciplina, la biologia, che dà un contributo fondamentale alla comprensione del modo in cui ebbe origine l’umanità e del motivo per cui in questo pianeta esiste una specie come la nostra.

  1. A passeggio per Roma

Se, girando per Via Veneto incontrassimo un uomo di Neandertal, vestito di tutto punto, non potremmo non notarlo: di bassa statura, corpulento, cranio di grandi dimensioni, fronte e mento sfuggenti. Sarebbe consigliabile non stringergli la mano: rischieremmo la frattura del metacarpo. L’uomo di Cro Magnon, una forma primordiale del sapiens, alto, snello, slanciato, passerebbe invece inosservato.

Ci chiediamo allora: quale è il rapporto di parentela tra questi due individui, per certi versi affini e pur tuttavia così diversi? Fratelli, cugini, l’uno genitore dell’altro? La tesi più convincente è, come spesso accade quando ci si muove nell’ambito della scienza, del tutto contro intuitiva. A seguito della migrazione di alcuni sapiens dall’Africa sud orientale verso il vicino oriente e l’Europa, dove ancora imperversava la glaciazione di Wurm, avrebbe selezionato una specie fisicamente più forte, il neandertal, costretta a fronteggiare grandi difficoltà nel reperire cibo: il cacciatore raccoglitore non ha nulla da raccogliere su un territorio coperto da neve e ghiaccio e si nutre essenzialmente di carne, come si può riscontrare dalle condizioni delle sue mandibole e dei suoi denti consumati e cariati. L’assenza di alcuni amminoacidi essenziali lo avrebbe reso inadatto a sopravvivere alle nuove condizioni climatiche: la carenza di importanti mattoni chimici, quali zuccheri, e vitamine rende il suo cervello, le cui dimensioni arrivano a 1600 cc rispetto ai 1450 del sapiens, poco utilizzato, non in grado di sviluppare ramificazioni sinaptiche, associative, qualitative, strategiche. In Africa, invece, il suo antenato sapiens, con minore capacità cranica ma con un cervello ben alimentato, è più ricettivo rispetto agli stimoli dell’ambiente e quindi meglio attrezzato per la sopravvivenza.

Ma c’è di più: recenti studi sui DNA del neandertal e del sapiens evidenziano una differenza di appena lo 0,14%, che sembrerebbe assolutamente insufficiente a spiegare le rilevanti diversità dei fenotipi. Ma ci soccorre un altro ramo della scienza, l’epigenetica, per spiegarci come ciò sia possibile.

I reperti paleontologici ci assicurano che il Neandertal e il sapiens si sono incontrati, ma è ancora aperto il dibattito tra chi sostiene che fossero ormai due specie diverse o appartenessero ancora alla stessa specie. Coloro che propendono per questa seconda ipotesi parlano allora di homo sapiens sapiens e homo sapiens neandertalensis.

Ancora da chiarire infine  se tra il sapiens e il neandertal ci sia stato crossbreeding oppure no.

Altre perplessità nascono a proposito della parentela tra noi umani e la specie attualmente esistente più vicina geneticamente a noi: lo scimpanzé. Una distanza genetica del 2% nel DNA dà conto di una diversità abissale non solo per ciò che riguarda il fenotipo,  ma anche  per le dimensioni del cervello, per l’intelligenza, il linguaggio, la sessualità ecc.

Malgrado tale diversità, nel lontano 1758, Linneo, il padre della classificazione scientifica delle specie viventi, collocò l’uomo e lo scimpanzé nello stesso genere homo, il primo come sapiens e il secondo come troglodytes.

Alla luce di una tale affinità ci si potrebbe chiedere quanto sia giusto che questi nostri parenti stretti vengano mantenuti in cattività ed utilizzati per effettuare esperimenti di esito mortale sui farmaci o per mostrarli reclusi in gabbia e in condizioni di palese sofferenza negli zoo.

  1. Alla ricerca di un’eredità

Chi siamo, perché siamo così, quali nostri comportamenti, abilità, sensibilità, pulsioni, fobie sono di origine genetica, e quali mutazioni premianti possono averli generati, che cosa invece è imputabile a tradizioni e culture? Gli strumenti a disposizione  sono pochi e limitati.

  • Esistono ancora, ma sono in via di rapida sparizione, gruppi di sapiens che vivono ancora come i cacciatori raccoglitori del paleolitico, ma qualunque analogia tra questi e i nostri progenitori di alcune decine di migliaia di anni fa soffre dei condizionamenti che i primi subiscono dalla vicinanza del mondo civile. Qualcuno, prudentemente, propone studi di etologia comparata sapiens – “parenti vicini”.
  • I reperti paleontologici sono rari ed è necessaria una buona dose di intuito e fortuna per trovarli. Inoltre sono totalmente carenti resti fossili antropomorfi di alcun tipo per il periodo decisivo compreso tra cinque e quattordici milioni di anni fa in Africa.
  • La tecnica di datazione basata sul decadimento del radiocarbonio non va oltre i 40 mila anni, anche se ne esistono altre, più moderne e sofisticate (potassio-argo, rubidio-stronzio, uranio-torio) recentemente entrate in uso.
  • L’analisi del DNA, strumento di grande efficacia, richiede tuttavia campioni di buona qualità.
  1. Il Neodarwinismo

Per dirla con Kuhn (La struttura delle rivoluzioni scientifiche,1962), il paradigma attuale è il cosiddetto Neodarwinismo e la fase attuale è quella di “scienza normale”, durante la quale, senza mettere in discussione i principi di fondo del paradigma, si valutano corollari, si cercano conferme, si pubblicano articoli scientifici.

Il Neodarwinismo, detto anche sintesi moderna, deriva dall’integrazione tra vari contributi.

  • La teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale di Charles Darwin.
  • La teoria dell’ereditarietà di Gregor Mendel sulle basi dell’eredità biologica rivista alla luce della moderna genetica, comprese le mutazioni genetiche casuali come sorgente della variazione.
  • La deriva genetica che spiega come, in popolazioni poco numerose, si può arrivare, in assenza di mutazioni e di selezione ambientale, alla totale diffusione o alla totale scomparsa di una caratteristica genetica non necessariamente premiante né penalizzante. Nella riproduzione di una popolazione infatti, se un allele ha una frequenza p, la teoria della probabilità impone che (se non vi è selezione naturale in corso) nella generazione seguente, una frazione p della popolazione erediterà quell’allele particolare. Comunque, come nel caso dei lanci di una moneta, le frequenze alleliche nella popolazione reale non sono variazioni di probabilità; piuttosto, sono un modello casuale, e sono perciò soggetti alle stesse oscillazioni statistiche. Quando gli alleli di un gene non differiscono considerevolmente, in media il numero di portatori in una generazione è proporzionale al numero di portatori nella generazione precedente. Ma la media non è mai corrispondente, poiché ogni generazione genera la successione una sola volta. Dunque la frequenza di un allele tra i figli spesso differisce dalla sua frequenza nella generazione dei genitori. Nella generazione dei figli, l’allele potrebbe perciò avere una frequenza p’ leggermente differente da p. In questa situazione, si dice che le frequenze alleliche abbiano subito la deriva. Si noti che la frequenza p” dell’allele nella generazione successiva sarà determinata in base alla frequenza p’ e indipendentemente da p, il che sta a significare che la deriva è un processo privo di memoria e può essere visto come un processo di Markov.

               Un esempio concreto degli effetti della deriva genetica? Tutti i nativi americani hanno gruppo sanguigno 0.

La sintesi moderna, che vede il gene come unità fondamentale dell’eredità e come bersaglio del meccanismo dell’evoluzione, unifica diverse branche della biologia che in precedenza avevano pochi punti di contatto, in particolare la genetica, la citologia, la sistematica, la botanica e la paleontologia.

  1. I tanti aspetti dell’evoluzione
  • La teoria degli equilibri punteggiati. Oggi è da molti accettata la teoria degli equilibri punteggiati, sviluppata da Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, in base alla quale i cambiamenti evolutivi avvengono in periodi di tempo relativamente brevi sotto l’impulso di forze selettive ambientali; questi periodi di variazione evolutiva sarebbero intervallati da lunghi periodi di stabilità evolutiva, nei quali il fenotipo delle forme di vita rimarrebbe sostanzialmente stabile. Nei periodi di variabilità, invece, i fenotipi delle forme di vita si sarebbero diversificati fino a portare all’attuale biodiversità; il breve di Gould ed Eldredge non va confuso con il termine immediato; si riferisce infatti alle scale geologiche, pertanto risultano essere brevi i periodi temporali pari od inferiori ai 200.000/300.000 anni.
  • La selezione multilivello

E’ ormai accertato che la selezione premia non soltanto la specie i cui individui sono più adatti all’ambiente, ma anche le collettività solidali, tendenti cioè a curare la sopravvivenza e le necessità dei membri ad essa appartenenti. Si tratta di due tendenze spesso coesistenti in ogni individuo ed in conflitto tra di loro. Le presenta anche l’homo sapiens, in cui potremmo dire che alberghi un santo e un peccatore.

Nelle centinaia di migliaia di linee evolutive di animali esistite negli ultimi 400 milioni di anni, questa condizione  si è verificata solo 19 volte, tra insetti, gamberetti marini che vivono tra i coralli, roditori ipogei, e con l’homo, in tutto 20 volte. Solo meno di ventimila le specie di insetti eusociali (formiche e termiti) e, su un milione di specie di insetti conosciute, rappresentano la metà della biomassa di insetti del pianeta. I sapiens sono esseri straordinariamente cooperativi e forse gli unici dotati di morale. Due sono stati i momenti chiave nell’evoluzione che hanno indotto la specie umana a passare dalla cooperazione strategica alla morale genuina. Nel primo, le sfide dell’ambiente hanno spinto i nostri antenati a collaborare tra loro nella ricerca del cibo, sviluppando forme di intenzionalità congiunta che hanno dato origine a una prima forma di morale, basata sulla seconda persona. In seguito, la pressione demografica ha determinato la frammentazione delle popolazioni umane in gruppi culturalmente definiti, le cui attività hanno richiesto la formazione di un “noi”, in grado di esercitare un’intenzionalità collettiva, creando convenzioni e norme che definissero cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Il risultato è che gli esseri umani contemporanei possiedono una morale che li obbliga nei confronti non solo del prossimo, ma anche della comunità nella sua interezza.

  • La coevoluzione gene-cultura

Anche l’affermarsi di un nuovo modello culturale può essere elemento in grado di premiare gli individui in possesso di caratteristiche genetiche in grado di avvalersene. Un esempio? L’homo sapiens produce nei primi anni di vita la lattasi, un enzima che consente di metabolizzare il lattosio, trasformandolo in due zuccheri di grande importanza sul piano alimentare, il glucosio e il galattosio. Tale produzione cessa intorno ai quattro anni. Con la rivoluzione agricola e l’avvento dell’allevamento degli animali, il beneficio di nutrirsi con latticini anche in età adulta ha premiato gli individui che, per una mutazione genetica hanno mantenuto la produzione dell’enzima. Ancora oggi esistono sapiens adulti intolleranti ai latticini. I popoli asiatici presentano in percentuale notevole questa caratteristica “penalizzante”.

  • L’evoluzione volizionale

Con il progresso culturale e tecnologico l’uomo è intervenuto direttamente nei processi evolutivi della propria e delle altre specie. Da alcuni secoli la percentuale di umani che arriva all’età delle riproduzione è in continua crescita, in quanto, se necessario, può ricorrere alle cure mediche. Quanto alle altre specie, animali e vegetali, sono sempre più frequentemente oggetto di incroci o addirittura interventi sul genoma che le rendono più utili ai nostri fini. Si tratta di una realtà che sta assumendo ritmi di crescita sempre più rapidi e che, secondo alcuni, già nell’immediato futuro si focalizzerà su tre linee di sviluppo parallele il cui acronimo è BNR (Biologia, Nanotecnologie, Robotica).

 

  1. La rivoluzione cognitiva 

    E’ il “grande balzo in avanti” dell’homo sapiens, verificatosi 70.000 anni fa circa, in costanza del patrimonio genetico, che, da un lato, lascia sbalorditi tutti gli studiosi e dall’altro offre argomenti di rifiuto dell’evoluzionismo ad alcuni gruppi di pseudo studiosi.

Il fenomeno più significativo di questo periodo è la comparsa del linguaggio evoluto.

Oggi la posizione più ampiamente condivisa è che, molto schematicamente, una lingua (ogni lingua!) è:

  • un sistema computazionale che produce espressioni strutturate gerarchicamente ed è interfacciato con altri due sistemi interni;
  • un sistema sensomotorio per l’esternalizzazione (il suono, il segno, il tatto);
  • un sistema concettuale per l’inferenza, l’interpretazione, la programmazione l’organizzazione dell’azione (il pensiero).

Ma come nasce, come funziona, come evolve il linguaggio?

Fu Alfred Wallace il primo a richiamare l’attenzione sulla difficoltà di spiegare il linguaggio umano in chiave darwinistica tradizionale, non riuscendo egli stesso ad individuare una funzione biologica che non si sarebbe potuta già svolgere da parte di una specie priva di linguaggio. Per questo da più parti questo è definito “il problema di Wallace”.

Darwin, come lo stesso Linneo, sosteneva che natura non facit saltus. Diceva infatti: 

(la selezione) non può mai fare un salto grande e improvviso, ma deve avanzare a passi brevi e sicuri, benché lenti  (1859) 

e, a proposito del linguaggio, che deve essersi evoluto

 mediante numerose, successive, lievi modificazioni.

Lo stesso Thomas Huxley, che si autodefinì “il mastino di Darwin”, criticò apertamente i due aggettivi “numerose “ e “lievi”

A spiegazione della posizione di Darwin, va tenuto presente che, mentre era in viaggio sul Beagle, era assorbito dalla lettura degli autorevoli Principles of Geology di Charles Lyell e della loro impostazione uniformista, rivoluzionaria in un tempo in cui il catastrofismo era il paradigma in auge.

Convinto di ciò propose una “teoria Caruso” nel suo The descent of man (1871): il linguaggio, o meglio il canto sarebbe come la coda del pavone! In altri termini, la voce, e quindi il canto, avrebbe avuto il ruolo di richiamo sessuale.

Sempre nella stessa opera però, collega l’insorgere del linguaggio con l’aumento della potenza mentale dei primi progenitori dell’uomo:

Una lunga e complessa serie di pensieri non può formarsi senza l’aiuto delle parole, siano esse pronunciate o taciute.

Per Darwin quindi, e per molti studiosi moderni, il linguaggio è strettamente connesso con il pensiero. Insomma è uno strumento mentale interno.

Recenti studi effettuati da David Lenneberg, teorico dell’innatismo del linguaggio, come Noam Chomsky con cui ha lavorato ad Harvard, avrebbero messo in evidenza una componente genetica del linguaggio, per prima cosa scoprendo l’invenzione spontanea del linguaggio dei segni come linguaggio umano completo, e inoltre studiando l’analisi genealogica di famiglie con menomazioni linguistiche, che hanno evidenziato la mutazione del gene FOXP2, che svolge la funzione di attivatore di altri geni.

Secondo Lennenberg, inoltre,

L’esistenza di capacità linguistiche identiche per tutte le razze fa pensare che questo fenomeno debba essere comparso prima della diversificazione razziale

Robert Berwick e Noam Chomsky non ritengono che il linguaggio si sia evoluto inizialmente come forma di comunicazione. Piuttosto sarebbe una conseguenza dello sviluppo delle nostre capacità cognitive, uno strumento mentale interno che collega il pensiero astratto (il concetto, l’obiettivo) e la pianificazione (l’azione conseguente). Sostengono che la capacità di astrarre, e pianificare costituì un grande vantaggio selettivo, pur ammettendo d’altro canto di non possedere alcuna ipotesi su come la specie sviluppò la capacità di concepire il pensiero astratto.Tutto ciò, sostiene Chomsky, “è differente da qualunque altra specie animale”.

Per capire come e perché l’homo sapiens sviluppò questa preziosissima abilità ci vengono in soccorso alcune ipotesi.

  • Il cervello del sapiens, per effetto di favorevoli aspetti ambientali, quali ad esempio una idonea alimentazione, ha subito un processo di “ricablaggio” che ha consentito la funzionalizzazione di alcune aree (Broca, Wernicke).
  • Nel sapiens ha avuto luogo una importantissima mutazione fisiologica che ha fatto abbassare nella sua gola la laringe, creando così una vera e propria camera vocale, che consente di modulare i suoni. Così l’uomo non potrà più bere e respirare contemporaneamente, come fanno gli scimpanzé, ma in compenso può articolare e modulare i suoni laringei e concepirne alcuni per comunicare con i suoi simili. E’ la nascita del linguaggio che via via crea fonemi; ne bastano solo 40 per articolare una lingua, 122 per articolarle e parlarle tutte (ricordiamo che un computer a sintesi vocale oggi ne utilizza 120).
  • Il linguaggio ha dato immensi vantaggi selettivi, permettendo di unire tribù e dare inizio a quelle grandi comunità che andranno a creare poi razze e popoli; un bambino, nei primi mesi, non ha ancora la laringe bassa e, per quanto intelligente, non potrebbe mai articolare parole simili alle nostre; potrà farlo solo dopo 8-20 mesi. L’embriologia conferma che noi, dal concepimento in poi, ripercorriamo tutti gli stadi dell’evoluzione avvenuta nell’intero processo del mondo biologico. E, dalla nascita, l’intero processo cognitivo degli ultimi 30.000 anni. Osserviamo quindi che, anche nello sviluppo del linguaggio, l’ontogenesi ripercorre la filogenesi.
  1. L’occupazione del pianeta 

100.000 anni fa coesistevano sulla Terra diverse specie umane, oltre l’homo sapiens: l’homo rudolfensis e l’homo ergaster (entrambi nell’Africa Orientale), l’homo erectus (nell’Asia Orientale), l’homo neanderthalensis (in Europa e Medio Oriente), l’homo soloensis (nell’isola di Giava), l’homo floresiensis (nell’isola di Flores, Indonesia) e l’homo denisova (Siberia). 30.000 anni fa rimaneva soltanto il sapiens.

Oggi è convinzione diffusa che l’homo sapiens sia nato nell’Africa sudorientale e che si sia diffuso su tutto il pianeta differenziandosi geneticamente in ragione dell’adattamento ad ambienti via via diversi, ma non al punto di generare nuove specie. Sono molte le prove a sostegno di questa tesi. Estremamente interessante è quella illustrata, in maniera molto efficace da Luca Cavalli Sforza, grande genetista italiano, in Geni, Popoli e Lingue (1996), basata sullo studio delle distanze genetiche oggi esistenti tra i nativi dai cinque continenti.

L’attività di studio e ricerca di Cavalli Sforza è di enorme vastità, portando alla conclusione che l’aspetto genetico, consistente nell’irradiazione dei geni, quello paleoantropologico, che dà conto della diffusione dei popoli, e quello linguistico, che registra la diversificazione delle lingue, sono strettamente correlati.

  1. Quale futuro?

In poche decine di migliaia di anni l’homo sapiens, strettissimo parente dello scimpanzé e del bonobo, con un corredo di geni che differisce da quello di questi suoi cugini più stretti soltanto del 2 per cento, ha cambiato le leggi dell’evoluzione, ha popolato il mondo, ha rotto gli equilibri naturali, sottomettendo tutte le altre specie viventi e depredando l’ambiente, con ritmi di sviluppo sempre più veloci.

Quale futuro per l’homo sapiens? Il rapido declino e la scomparsa oppure una nuova specie immortale?

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Redazione Fidaf

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