“Brexit”, il commercio agroalimentare e la Pac
Analisi e simulazioni prefigurano effetti sul commercio italiano verso il Regno Unito e nuovi assestamenti del bilancio europeo. Ove l’agricoltura potrebbe guadagnare posizioni nell’agenda politica, resterebbero incertezze nel processo di integrazione comunitaria.
Il 23 giugno 2016 i cittadini britannici hanno scelto con una consultazione referendaria di uscire dall’Unione europea (Ue), con una maggioranza del 51,9%, pari a circa 17,5 milioni di elettori. Quello che sembrava poco più di un regolamento di conti in seno al partito conservatore, probabilmente, è sfuggito di mano agli stessi promotori del referendum, trasformandosi in una vera e propria bomba geo-politica dagli esiti molto incerti, che mette in discussione i delicati equilibri in seno all’Ue.
Fino a quando non lascerà l’Unione, al Regno Unito continuerà ad applicarsi il diritto dell’Ue. La base giuridica che regola la procedura di uscita è l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea. Tale articolo1, peraltro finora mai applicato, viene attivato dalla notifica da parte del Paese che intende uscire.
Il premier britannico Theresa May, succeduta al dimissionario Cameron, ha dichiarato che intende attivare l’articolo 50 a fine marzo 2017, per cui da allora partirà il periodo di 2 anni durante il quale andranno negoziati i termini di una separazione che dovrebbe concretizzarsi a metà 2019, praticamente alla fine dell’attuale quadro finanziario 2014-2020.
Per quanto riguarda la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, che nel secondo semestre 2017 sarebbe toccata al Regno Unito, questa andrà all’Estonia. Le successive presidenze saranno tutte anticipate di sei mesi. Riguardo ai futuri rapporti tra Ue e Regno Unito, dopo l’uscita dall’Ue sono possibili diverse ipotesi: la partecipazione allo Spazio economico europeo ma senza avere voce in capitolo sulle regole, come avviene per la Norvegia; accordi su specifici settori (modello svizzero); libero scambio attraverso accordi commerciali per l’abbattimento dei dazi; oppure, al limite, una situazione in cui non si trovano accordi e i rapporti commerciali sono regolati dalle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Anche in questo caso, tuttavia, la cosa non sarebbe automatica, perchè il Regno Unito dovrebbe negoziare direttamente in seno alla Omc e non più, come accade oggi, attraverso la sua adesione all’Ue.
Sull’approccio con cui il governo britannico condurrà il negoziato con l’Ue ci sono due ipotesi: un’uscita “dura” e conflittuale (hard Brexit) oppure un’uscita morbida e, per così dire, amichevole (soft Brexit). Il dibattito nel Regno Unito è molto intenso: i fautori della hard Brexit si trovano soprattutto tra i conservatori, che non intendono perdere il sostegno elettorale di chi ha votato a favore di Brexit, mentre molti economisti e i politici più moderati preferirebbero un negoziato orientato a una soft Brexit. Sarebbe questa una soluzione, oltre che più sensata, anche più in linea con il voto del referendum: infatti, ben il 48% dei cittadini britannici hanno votato per rimanere nell’Ue e molti di quanti hanno votato per uscire sono oggi preoccupati che ciò accada in modo traumatico. Inoltre, dato che il referendum ha valore consultivo, lo stesso Parlamento inglese intende avere voce in capitolo – non necessariamente in favore di Brexit – il che aumenta ulteriormente il margine di incertezza…