Agro-industria e Green Deal un percorso complesso e con molte incognite
Le due strategie del Farm to Fork e della Biodiversità di cui si parla nel mondo agricolo, per i risvolti diretti che il loro contenuto provoca sul settore primario, derivano dal Green Deal Europeo, varato, dalla Commissione appena dopo l’insediamento, nel mese di dicembre 2019.
A sua volta il Green Deal è il contributo dell’Unione europea all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sancito dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 25 settembre 2015.
L’Ue ha preso piuttosto sul serio gli impegni sottoscritti, a differenze di quanto si riscontra in altri partner internazionali ed ha avviato numerosi e ambiziosi programmi, con i quali si prefigge di perseguire l’obiettivo di promuovere “una società equa e prospera, con una economia moderna, competitiva ed efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse, con emissioni nette pari a zero entro il 2050”.
Senza dubbio, l’Europa intende ricoprire il ruolo di coraggioso capofila, partire con convinzione, per poi trascinare nella sfida della sostenibilità tutti gli altri Paesi e dare così concretezza a quanto definito nell’accordo ONU.
Il Green Deal deve essere considerato come una sorta di master plan, all’interno del quale sono individuate le diverse aree di intervento ed i passaggi cruciali che dovrebbero portare al raggiungimento del risultato.
A distanza di quasi un anno dal suo varo, va riconosciuto come l’esecutivo comunitario stia procedendo con determinazione e senza sosta, neanche durante la fase più critica dell’emergenza determinata dal Coronavirus. A tale proposito basti segnalare come i documenti più strettamente collegati con l’agricoltura e l’alimentazione siano stati ufficializzati il 20 maggio scorso e quindi finalizzati in pieno periodo di emergenza.
Ricordo bene che si era parlato di un rinvio, ma vi fu una vibrante protesta delle organizzazioni ambientaliste europee e la Commissione ha deciso di rispettare la tempistica inizialmente prospettata, fornendo così il segnale che non c’è incompatibilità tra la sfida per la sostenibilità europea e il lavoro da svolgere nella fase di emergenza, anzi da più parti si fa passare l’idea che l’implementazione del Green Deal sia collegata con la protezione dei cittadini, oltre che dell’ambiente e quindi rappresenti anche la reazione alla pandemia.
Come spesso accade in Italia, il Green Deal Europeo, il Farm to Fork e la Strategia per la Biodiversità sono state trattate nel complesso con superficialità, in un certo senso esorcizzate, sicuramente non approfondite, con poco o alcuno sforzo per valutarne l’impatto.
Il massimo della negligenza l’hanno raggiunta alcuni operatori economici, anche di grande importanza, i quali si sono limitati a rivolgere un generico apprezzamento verso l’iniziativa e dichiarare come le loro imprese stiano andando esattamente nella direzione auspicata dal Green Deal. Il tempo sarà galantuomo e ci dirà come andrà a finire la storia, soprattutto quando queste sedicenti “virtuose” imprese saranno chiamate a sottostare ed attuare le disposizioni via via finalizzate.
Riporto un esempio tra i tanti che potrebbero essere menzionati. Il 22 giugno scorso, sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, è apparso il regolamento 2020/582 che istituisce il sistema di classificazione unificato per le attività sostenibili (la cosiddetta “tassonomia”). Si tratta di uno strumento che serve a indentificare quali attività economiche siano da considerarsi “verdi” o “sostenibili” e tali da comportare un vantaggio in termini di mitigazione di cambiamenti climatici, ed a favore delle quali indirizzare i flussi dei capitali e gli interventi del sistema finanziario. A fine ottobre, la Commissione Ue ha diffuso una bozza di regolamento delegato, dove si stabiliscono i criteri di selezione tecnica che definiscono a quali condizioni una data attività economica può essere qualificata come sostenibile.
Una volta che il sistema di classificazione per la sostenibilità sarà operativo, quelle imprese che si autodefiniscono virtuose potrebbero avere difficoltà di accesso ai mercati finanziari (prestiti, obbligazioni, ecc.), perché i loro progetti di investimento e le loro attività non sono considerate in linea con i requisiti.
In sostanza, il Green Deal e le collegate strategie direttamente ed indirettamente influenti sul sistema agro-industriale orienteranno le più importanti scelte politiche dell’Unione europea nei prossimi anni su molteplici fronti e comporteranno una modifica delle regole di produzione, trasformazione, commercializzazione e comunicazione. Il tutto con la finalità di modificare i comportamenti degli agenti economici, dai produttori agricoli fino ai consumatori finali, chiedendo loro di mettere al primo posto le prestazioni ambientali, ma non con ipocrite e semplici operazioni di “green washing” (verniciatura di verde), ma con interventi tali da migliorare la sostenibilità, la resilienza e contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici.
Non sarà un percorso agevole e il risultato è incerto, perché la Commissione Ue ha mostrato le proprie carte, ma ora serve il consenso politico degli Stati membri, del Parlamento, dei portatori di interesse, dei cittadini e non si deve trascurare la reazione dei partner internazionali.
Sono stati fissati obiettivi ambiziosi, dando l’impressione di averli quantificati senza avere preliminarmente eseguito la valutazione di impatto, la consultazione di soggetti pubblici e privati interessati e la ricognizione dei dati scientifici disponibili.
Ad esempio, una delle azioni che rivestono una importanza centrale in agricoltura è di dimezzare l’utilizzo dei prodotti fitosanitari, ivi inclusi quelli che hanno passato il vaglio delle verifiche delle competenti autorità europee e nazionali. Per quale ragione si deve procedere con una riduzione così forte, se tali prodotti sono considerati sicuri da autorità indipendenti? Come è possibile coniugare la proposta della Commissione Ue presente sia nel Farm to Fork che nella Strategia Biodiversità, quando gli agricoltori si lamentano di non riuscire a mettere in atto una efficacia azione di difesa delle coltivazioni per mancanza di principi attivi?
Lo stesso si può dire per l’obiettivo di portare l’agricoltura biologica al 25% entro il 2030, il quale pare essere stato stabilito in modo estemporaneo. Perché il 25%? Come si deve raggiungere il traguardo indicato? E’ sufficiente anche solo aumentare le colture foraggere ed i prati pascoli in biologico, con un impatto trascurabile se non nullo in termini di miglioramento della sostenibilità? Per non parlare della carenza in termini di valutazione del potenziale effetto sul mercato di un salto così consistente. Non a caso, la stessa federazione del biologico del Copa – Cogeca di Bruxelles, l’organizzazione degli agricoltori europei, ha espresso critiche e dubbi, paventando il rischio di una destabilizzazione del mercato.
C’è un terzo dubbio da evidenziare ed è la reazione del principale partner commerciale dell’Unione europea e cioè gli Stati Uniti che hanno manifestato alcune perplessità rispetto al Farm to Fork. Il segretario di Stato all’agricoltura Sonny Purdue, in una conferenza stampa ha detto che “l’impatto potrebbe essere estremamente problematico sul commercio transatlantico e che l’Unione europea non può imporre i propri standard di produzione agricola ed alimentare”, fino ad adombrare l’accusa di protezionismo e la possibilità di aprire un contenzioso in ambito WTO.
Infine, ci sono altri due determinanti aspetti da porre all’attenzione. Chi paga il costo generato dalla riprogettazione del futuro dell’alimentazione verso la sostenibilità? Non è che alla fine l’onere ricade sui due soggetti più fragili e cioè gli agricoltori ed i consumatori? Il piano di azione che si intende attuare è compatibile con il mantenimento della competitività del sistema agro-industriale europeo? E’ tale da preservare la capacità produttiva e da evitare l’esportazione delle esternalità negative?
In conclusione, l’interazione tra Green Deal Europeo ed agricoltura è complessa e non è saggio cavarsela con un atto di incondizionata fiducia nei confronti delle Istituzioni di Bruxelles ed attendere passivamente l’esito del percorso.
La FIDAF, magari con altre Istituzioni scientifiche e tecniche del sistema agro-industriale nazionale, potrebbe promuovere un osservatorio per monitorare la fase di implementazione, analizzare il processo legislativo a livello europeo e nazionale e contribuire ad orientare le scelte, mettendo in campo le competenze e la terzietà che sono i suoi tratti distintivi.