“Agricoltura: Femminile singolare” di Deborah Piovan

“Agricoltura: Femminile singolare” di Deborah Piovan

Speriamo che sia femmina è il film, bello e piacevole, realizzato qualche decennio fa dal grande regista della commedia all’italiana Mario Monicelli. Il cast era sostanzialmente di sole donne, legate tra di loro da parentele o da rapporti di lavoro, con una eccezione, lo zio Gugo, praticamente rimbambito e “gestito” da una domestica. Da un certo punto di vista il racconto è spietato; gli uomini sono o mentalmente fragili come Gugo o “bischeri” o veri e propri cialtroni, egoisti e falliti, come dimostrato dalle poche e fuggevoli apparizioni di “comparse” maschili.

Mi trovo, ora, di fronte al libro di Deborah Piovan, allieva, in passato, del mio corso universitario di “Fisiologia vegetale” a Pisa, come unico maschio nel confronto di donne peraltro selezionate per competenza, per coraggio delle scelte, o per elevata sensibilità alle cose del mondo, in particolare, agroalimentare. È una dura comparazione e….. «io, speriamo che me la cavo».

Così come è ovvio che il modo principale di comprendere il contenuto di un libro è quello di leggerlo, verrebbe da dire che il mezzo migliore che abbiamo per capire bene il contributo di persone impegnate in questo mondo è quello di seguire quanto hanno fatto e stanno facendo. Ma non sempre è possibile; ecco dove il genere dell’intervista trova un suo potente significato: diviene il punto archimedico per segnalare, in modo breve e incisivo, importanti impegni tutti convergenti, in questo caso, al riscatto dei popoli dalla fame, ma con atteggiamenti, mi verrebbe da dire, poco maschili.

Se Anna Meldolesi mi affascinò (come accadde a una folta schiera di sostenitori dello strumento genetico come poderoso mezzo di sviluppo dell’agricoltura) con il suo Organismi geneticamente modificati. Storia di un dibattito truccato del 2001, non meno interessante risulta il dialogo attuale tra lei e Deborah, dove la Meldolesi acquista un tono meno assertivo, dubitando di tutto ciò che non ha dimostrazioni assolute. Ciò non esclude precise scelte, ad esempio, sul problema dell’aborto selettivo in Cina e in India: la violenza di genere, contrastata sostenendo la parità, risulterà nettamente più efficace di eventuali percorsi educativi. Usando un atteggiamento di tenera simpatia, Deborah dice che ora Anna è prudenza, ponderazione e molto studio. Il vecchio prof accusa il colpo.

Storicamente fondamentale è la testimonianza di Ines che ci riporta ai ritmi e alle immagini della Civiltà contadina, definitivamente tramontata nella nostra parte di mondo; permane nei ricordi dei più vecchi, pertanto ormai è letteratura. Ciononostante, durante la lettura di questa intervista, mi lascio abbracciare volentieri da una anacronistica nebbia di nostalgia, ma che mi accompagna piacevolmente. Ho la netta convinzione che questo tipo di messaggi debba far parte di noi. Non possiamo dimenticare la nostra cultura. Ines è noi.

Totalmente diversa da Ines è Vittoria Brambilla dedicatasi alla ricerca scientifica sulle piante; quanto completa possa essere la dedizione a questa attività è ben espressa da una sua frase. «Fare ricerca scientifica è un allenamento, una palestra per la mente: abitua i giovani a ragionare sulle cose, con senso critico; fare ipotesi e esperimenti che le dimostrino».

Attualmente convive con la SLA del marito.

Una grave malattia neurodegenerativa, rara, la Còrea di Huntington, talora chiamata “ballo di San Vito”, costituisce uno dei temi di ricerca guidati, nel suo laboratorio, da Elena Cattaneo, senatrice a vita. Elena è molto brava e, fortunatamente per noi, segue con grande attenzione il progresso tecnologico agricolo. Ma qui vorrei ricordare in particolare un suo aspetto umano, segnalato da Deborah nell’intervista. Periodicamente nel laboratorio di Elena Cattaneo arriva Jonne, che ha perso, a seguito della terribile Còrea, marito e figlio. Ma porta sempre con sé una torta che consegna a tutto il laboratorio e poi pone la domanda: quali passi avanti avete fatto negli ultimi sei mesi? Elena, che conosce benissimo il duro cammino della ricerca di frontiera, supera una iniziale difficoltà e poi squaderna gli ultimi dati alla gradita Jonne.

C’è un grande insegnamento in questa consegna della torta seguita dalla presentazione degli ultimi dati da parte della ricercatrice. È l’abolizione della “turris eburnea”; sostituita dall’ascolto verso chi chiede: cosa stai facendo? Umiltà e dovere di comunicare, devono essere al posto della estraneazione.

Alcune di queste donne fanno affermazioni che sono convalidate da lunga esperienza sul campo e quindi dovrebbero portare un contributo importante al faticoso e interminabile dibattito sull’agricoltura che in una società come la nostra, ricca, ma di terziario, e debole di memoria, si trasforma, troppo frequentemente, in un desiderio di campagna odorosa e riposante, di cibo pensato buono perché incontaminato. È il caso di Pamela Ronald, genetista e patologa vegetale californiana nata sulla Sierra Nevada, che, al pari dell’italiano “rivoluzionario” Fidenato, sottolinea come il mais Bt transgenico diminuisca il carico di insetticidi nei campi coltivati. Fortunatamente, ma anche purtroppo, chi ormai pratica e conosce l’agricoltura è solo il 3-4% della popolazione, almeno nel mondo più avanzato, così che i leader politici si sentono esonerati da spiegare i veri vantaggi delle tecnologie disponibili, a cittadini che, appunto, sognano una campagna incontaminata che possa ritemprarli dopo le sudate fatiche nell’urbe. Sulla linea della Ronald è anche l’altra statunitense di origini scandinave, Lynn Larson, proprietaria di una azienda di oltre 2000 ha, che invece di contestare l’agricoltura biologica, la affronta con la serietà di un impegno che non fa sconti all’approccio ideologico, ma che, al contrario, dimostra di possedere uno straordinario bagaglio di conoscenze tecnico-agronomiche, derivato da una continua sperimentazione nella sua azienda, condotta, all’occorrenza, anche insieme a tecnici esperti.

Una analoga attenzione all’agricoltura biologica è dimostrata da Maria Beatriz Pilu Giraudo, argentina di Santa Fe, sostenitrice, dati sperimentali ineccepibili alla mano, della semina su sodo con il conseguente vantaggio della minore erosione di suolo, di minor uso di carburante e di riduzione della ossidazione della sostanza organica contenuta nel suolo. Questo metodo di gestione agronomica dei campi, accompagnato dall’uso delle “cover crops” – colture di copertura –, risulta anche in una forte riduzione di diserbanti chimici. La Giraudo è convinta, come Deborah, che gli agricoltori devono raccontare come lavorano, perché la popolazione anche di quella parte del mondo è progressivamente sempre più estranea alle pratiche agricole.

Comunque, è l’intervista all’unica africana del gruppo, a incidere maggiormente sulla nostra sensibilità. Catherine Langat nasce sugli altopiani del Kenya, ma un percorso assai singolare la spinge in Europa. Alla domanda «Cos’è il cibo per te?» risponde immediatamente e con estrema sintesi «È vita». Immagino la stessa domanda rivolta a me o a miei molti colleghi e penso alle contorsioni espressive cui saremmo ricorsi per dare una risposta “intelligente” e “colta” per non apparire banali. Ma Catherine ha fatto esperienze troppo diverse dalle nostre; nella sua scuola elementare, costruita con il fango, qualcuno un giorno le rubò il pranzo che portava con sé in un apposito cestino. Da quel momento capì, in modo definitivo, che finché c’è qualcuno che ha fame, tutta la società è in pericolo. E il problema non è limitato ad una città o ad una nazione, ma ci riguarda tutti. Troppi sono quelli che vanno a dormire senza avere ricevuto una minima quantità di cibo.

La Langat, dopo aver fatto varie esperienze lavorative europee, in Francia e Belgio, dice a Deborah «In Europa vi siete impigriti, ma potete permettervi questa inerzia: avete cibo, avete il lusso della scelta e potete permettervi di rinunciare a molte innovazioni. Ma non dimenticate: se un paese soffre la fame, prima o poi sarà un problema anche per l’Europa».

Forse qualcosa del genere doveva avere in mente papa Francesco, quando nel 2018 dichiarò venerabile Giorgio La Pira, che, incessante nell’impegno per la dignità umana, ci esortava, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, a pensare a «quelli laggiù, perché altrimenti verranno da noi». Molti ridevano a sentire queste frasi.

In questi giorni Catherine Langat è tornata a abitare in Kenya. Non voleva abbandonare definitivamente la sua comunità degli altopiani.

Catherine Langat e Ines; due donne, due mondi, due culture lontane, eppure vicine.

Donne di tutte le appartenenze sociali e di ogni età, così come gli uomini, trarranno spunti di grande utilità dalla lettura di questo genere giornalistico – l’intervista –, che è anche un genere letterario, applicato all’attività, praticata da percentuali di popolazione sempre più piccole, ma che ci deve coinvolgere nel profondo, l’agricoltura.

Il libro può essere ordinato in libreria o sulle piattaforme on line (Amazon).

Per info: https://www.pacinifazzi.it/agricoltura-femminile-singolare/

Redazione Fidaf

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