Ad ogni stagione il suo frutto
Un noto vecchio adagio recita: ad ogni stagione il suo frutto. Esso ritrascrive verosimilmente quanto già in Qohelet (3,1) ogni cosa ha il suo tempo, che a sua volta, forse, riprende quanto andava maturando dai/nei secoli precedenti, d’altre civiltà.
Camminando per mercati rionali e nei supermercati s’incrociano tante vie, tanti colori, tanti costumi e tante voci. Sui banchi è un fiorire di verdure e di frutti belli da guardare/ammirare, nonché gustosi e salutari; sugli scaffali altrettanta ricchezza, confetture, farine, pasta, pelati e tanto, tanto altro.
Siamo nella stagione estiva e, come un noto vecchio adagio recita: ad ogni stagione il suo frutto, mi attira uno dei tanti cartelli, scritti con mano incerta, chiaramente improvvisato: 2 kg d’uva, dolce, croccante: 0,99 €. Mi viene voglia, seguo il consiglio/invito e lascio anche il centesimo di resto. Continuando, sulla via del ritorno, vedo su altri banchi prezzi anche inferiori per la stessa quantità/qualità. Mi domando… ma questi grappoli sono il frutto(risultato) di almeno nove mesi di lavoro nei campi in tre diverse stagioni (inverno, primavera e estate) con la predisposizione delle piante, la loro cura e poi quella del frutto nei vari momenti di crescita fino al momento giusto per la raccolta, la scelta della migliore e sistemazione nelle apposite confezioni.
Quello della raccolta, come si sa, è concentrata in un breve arco di tempo; è faticosa, logorante, anche asfissiante sotto un sole cocente.
Mi domando ancora: ma quale è il ricavo per il proprietario/produttore dell’uva?
Se i prezzi al consumatore sono così bassi, quelli al proprietario/produttore saranno irrisori, pochi centesimi al kg. Come fa a non andare in perdita? Comprime i costi, e quali se non quelli del lavoro? S’insinua veloce e forte un dubbio: può nascere anche così una paga da 1 euro a 2 euro all’ora per 8, 10,12 ore, anche di sabato e di domenica?
Con il caldo che comincia a farsi sentire, entro nel fresco di un supermercato: compro della pasta, passo a prendere una scatola di pomodori pelati, anch’essi come la pasta, di provenienza Sud: ½ kg di prodotto sgocciolato, costo: € 0,49. A fianco la scatola di 1 kg, costo:0,89. Ma come? ½ kg costa meno di ½ caffè al bar e anche quella di 1 kg meno di un caffè. Ma come è possibile? C’è il costo del barattolo di acciaio igienizzato, dell’etichetta, delle tasse, del doppio trasporto (dal luogo di raccolta agli impianti di confezionamento e da questi al supermercato), degli operai e operaie impegnati dalla preparazione dei campi, all’impianto delle piantine, alla loro cura e raccolta, anch’essa faticosa, logorante, asfissiante sotto un sole cocente.
Mi domando ancora: ma quale è il ricavo per il proprietario/produttore dei pomodori?
Se i prezzi al consumatore sono così bassi, quelli al proprietario/produttore saranno irrisori, pochi centesimi al kg. Come fa a non andare in perdita? Comprime i costi, e quali se non quelli del lavoro? Forse, nasce anche così una paga da 1 euro a 2 euro all’ora per 8, 10,12 ore, anche di sabato e di domenica. Sempre.
Per quelle paghe io m’indigno, come tanti, come molti, come tutti. L’indignazione, però, non può nascondere, esorcizzare fatti e situazioni di una catena in cui anch’io, anche noi tutti siamo protagonisti, come lo sono governanti, politici, giornalisti, anche perché come tutti, consumatori, utilizzatori finali dei prodotti.
Chiedo di provare a domandarci se è congruo e giustificabile spendere/pagare meno di un caffè i prodotti al primo stadio, quello della produzione. Domandiamocelo a mente fredda, ora che il vento ha disperso-ancora una volta-i fumi dei roghi del cosiddetto granghetto tra San Severo e Foggia e di tanti altri ghetti in altri luoghi della nostra Italia.
Il ritorno salutare del silenzio, m’auguro, aiuti la riflessione.