Con i piedi per terra
“Immaginate un governo che imponga a tutti gli imprenditori agricoli, qualunque cosa coltivino, di utilizzare uno specifico prodotto o metodo, senza riguardo per estensione, terreno, altitudine, esposizione, umidità e fertilità dei campi, per la produttività attesa ed effettiva, per le condizioni meteo e per le peculiari esigenze di ciascuna azienda e coltura.
Probabilmente questo, in un quadro di stabilità e sicurezza interna ed esterna, non basterebbe a generare il caos. Ma, in una situazione geopolitica, climatica ed economica già instabile, potrebbe essere il fattore precipitante di eventi ingovernabili.
Andò così nell’Unione Sovietica degli anni ’30 del secolo scorso, quando Stalin impose in tutti i territori controllati dall’URSS le teorie agronomiche antiscientifiche di Trofim Lysenko, causando una carestia da decine di milioni di morti. È andata così nello Sri Lanka del 2021, quando il presidente Gotabaya Rajapaksa, su consulenza di Vandana Shiva, ha bandito i prodotti di sintesi in tutto il Paese, affinché diventasse il primo al mondo a praticare agricoltura esclusivamente biologica.
Oggi l’economia dello Sri Lanka è fortemente compromessa. Da un lato l’emergenza pandemica ha dato un duro colpo al turismo; dall’altro la conversione forzata al bio ha avuto come esito il calo delle rese agricole, col conseguente crollo delle esportazioni di tè e il venir meno dell’autosufficienza alimentare in relazione al riso.
Ecco: la sofferenza, il disagio economico, la fame di milioni di persone sono il risultato della sperimentazione “in pieno campo” di quanto, nel tempo, hanno auspicato anche molti esponenti politici italiani. Come un ex ministro dell’Agricoltura, oggi vicedirettore FAO, che nella campagna elettorale del 2018 prometteva di “azzerare l’uso dei pesticidi entro il 2025″, e come alcuni parlamentari delle più varie appartenenze che, nell’ultima legislatura, hanno presentato mozioni in cui si prospettava di proibire in maniera permanente l’utilizzo di “pesticidi e diserbanti” di sintesi.
Da anni sostengo che, prima di vietare o favorire determinati prodotti e pratiche agricole, le istituzioni dovrebbero avvalersi di organi di consulenza scientifica per una valutazione dell’impatto di tali scelte.
Purtroppo, quando l’ideologia si fa particolarmente forte e penetrante, alcune “parole d’ordine” filtrano negli atti legislativi prima che sia disponibile una stima solida dei loro effetti. Anche la strategia “Farm to Fork” dell’Unione europea (che ha tra gli obiettivi la conversione a biologico del 25% delle superfici agricole – si badi, non della produzione! – dell’UE e la riduzione dell’uso di agrofarmaci di sintesi del 50% entro il 2030) è stata adottata senza valutazioni ex-ante.
Stando agli scenari considerati in un report dell’USDA (US Department of agriculture), “Farm to Fork” potrebbe ridurre a breve termine le emissioni climalteranti dell’UE, ma il calo delle rese (e del Pil dell’area) farebbe aumentare i costi del cibo in tutto il mondo. Inoltre, la minor produttività dell’agricoltura europea andrebbe compensata con maggiori importazioni dall’estero: alla diminuzione delle emissioni in Europa corrisponderebbe il loro aumento in Paesi e continenti meno ricchi, che troverebbero peraltro conveniente esportare verso di noi la propria produzione, a scapito delle popolazioni locali. Anche il Joint Research Centre, organo di consulenza scientifica della Commissione europea, considera scenari simili.
Confondere i mezzi con i fini ha conseguenze pericolose; se il fine dell’Europa è un’agricoltura più sostenibile, per raggiungerlo bisogna utilizzare in modo integrato tutti gli strumenti di conoscenza e innovazione a disposizione. Comprese le nuove biotecnologie vegetali, studiate per ridurre al minimo l’impatto ambientale delle coltivazioni, ma che le norme europee impediscono, ancora oggi, di utilizzare in campo aperto”.
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