Il valore storico, ambientale e sociale delle dimore storiche: il caso della Masseria di San Germano

Il valore storico, ambientale e sociale delle dimore storiche: il caso della Masseria di San Germano

La masseria San Germano risale al XVII secolo ed è localizzata nella contrada omonima, in prossimità del fiume Bradano. Il termine masseria era usato già in epoca tardo romana per definire «un complesso di fondi rustici affidati al governo di un massaro» ed ha assunto nel tempo un’ampia valenza semantica, può quindi essere intesa sia come raggruppamento di  corpi di fabbrica aggregati o divisi tra loro, integrati o asserviti a fondi rustici di medie / grandi dimensioni, o nell’accezione più comune nel Mezzogiorno, in particolare in Lucania, come un complesso edilizio rurale, sede di un’economia agro-pastorale dominante sul latifondo, con proprietà di dimensioni variabili, ma tutte caratterizzate da una specifica identità giuridica, amministrativa e catastale. Per secoli le grandi e medie masserie lucane, come la masseria San Germano, hanno costituito il centro nevralgico degli interessi economici della feudalità, rappresentando per lungo tempo le uniche importanti sedi in cui si concentravano le attività produttive. Il più antico collegamento con le attuali masserie lucane risale alle fattorie del periodo ellenico della Magna Grecia: le Tavole Eraclensi, scoperte nel 1732, nel greto del torrente Salandrella. Queste tavole descrivono come si presentava il paesaggio agrario verso la fine del IV a.C., con campi suddivisi in modo regolare ed organizzati intorno a fattorie collegate tra loro da reticoli viari. La dominazione romana segnò la fine della piccola e media proprietà terriera, sostituita da un’economia basata sul latifondo. Nel periodo longobardo i capi, dopo aver espropriato gli antichi latifondi romani, s’insediarono nelle villae trasformandole in fortilizi, dando vita al modello curtense.  L’organizzazione produttiva si fondava sulla suddivisione dei terreni in 2 settori: una parte del signore, pars dominica, e l’altra assegnata ai coloni o ai massari, pars massaricia. I massari pagavano ai signori un canone in natura per l’affitto dei campi e fornivano, sempre per contratto, una serie di servizi sulle terre dei feudatari. Dopo l’epoca longobarda si passò all’istituto del feudo, di cui alcune consuetudini si protrassero fino alla Riforma fondiaria. 

Le masserie lucane possono essere distinte in 4 categorie, per qualità estetiche, dimensioni dei fabbricati, non sempre costruiti in un’unica fase: a) auliche o masserie «palazzo», composte da una masseria principale, centro delle attività produttive e residenza del proprietario, detta «capitale» e da alcune masserie di campo, quali la porcilaia ed il vaccariccio. La costruzione a pianta quadrangolare, su due piani, di cui il secondo era la residenza del proprietario, al pianoterra erano collocate le stalle, i magazzini, la cantina e la rimessa. L’aria (aia) veniva utilizzata anche per la «metogna», ovvero l’insieme delle operazioni agricole connesse alla raccolta dei cereali; b) masserie «composte» erano allineate lungo un solo asse o aggregate intorno ad un edificio di maggiore volumetria o pregio estetico. Ovili, stalle, colombaie, magazzini e torri si aggregavano alla dimora padronale e diventavano un’unica struttura composta da più corpi di fabbrica, talora con una piccola corte interna; c) «masseriole» o masserie elementari, di medie e piccole dimensioni, in genere in pendio, avevano stalle ai piani inferiori e magazzini ed alloggi in quelli superiori; d) casini di campagna, usati per brevi soggiorni dai proprietari e da alcuni notabili. Le strutture portanti erano realizzate in muratura mista, mentre la pietra serena era usata per gli architravi, le soglie, gli stipiti ed i portali. I pavimenti potevano essere realizzati in piastrelle di ceramica o cotto nelle stanze, mentre per la pavimentazione di cantine, magazzini e stalle venivano usati mattoni pieni, pietre o ciottoli di fiume. In alcuni casi le pareti ed i soffitti delle stanze padronali erano decorati con delle pitture murali. 

La masseria San Germano sicuramente può essere classificata tra le cosiddette masserie auliche o a palazzo. Si nota infatti già da lontano sia per la sobrietà che per l’imponenza ed è costruita in pietra.  Si svolge su 3 piani: il primo ed il secondo destinati ad abitazione ed il piano terra occupati da servizi ed uffici. Nella pianta originale per l’appunto, come riportato nella descrizione della classificazione delle masserie lucane, vi erano i magazzini per il deposito del grano e le scuderie, con pavimentazione in pietre bianche di fiume, per cavalli e muli, impiegati all’epoca nel lavoro dei campi e per il trasporto. Il terremoto nel 1980 provocò danni di un certo rilievo, ma un accurato restauro, eseguito negli anni novanta, lasciando inalterata la struttura, ed un’adeguata manutenzione, ne hanno restituito l’originaria bellezza. La masseria è di proprietà della famiglia Schiavone Panni, che la abita continuando a gestire, ormai da quasi 500 anni i fondi situati nella valle ai piedi del borgo, Acerenza, abitato attualmente da circa 3.500 persone, denominato anche Acherontia, posto ad 800 s.l.m., su una rupe arenaria, cantato anticamente da Orazio nei suoi Carmina (Carm. III, 4, vv, 9-20): quicumque quae celsae nidum Acherontiae, colonia romana nel periodo repubblicano e poi municipium in quello imperiale. Con la caduta dell’impero romano fu roccaforte dei Goti e poi dei Longobardi che la fortificarono. Tra la fine del  VII e gli inizi del XII secolo conobbe il periodo più glorioso della sua storia, sia sul piano religioso che politico. All’XI secolo risale la costruzione di una nuova e più grande cattedrale di stile romanico normanno. In questo periodo Acerenza ha assunto il ruolo di capitale del più vasto Gastaldato del principato normanno di Benevento. La struttura della cattedrale è rimasta immutata fino ai giorni di oggi. 
I Panni, antica famiglia acheruntina, acquistarono nel seicento, alla fine, il feudo di Acerenza per 21.500 ducati; la famiglia si estinse con Vincenzo Panni, che nel 1921 con apposito decreto di adozione trasferì il cognome e la proprietà ad Alfredo, figlio della sorella Maria Francesca, sposata con Vincenzo Schiavone. 

Proprio dalla storia e dal risalire alle nostre radici che nasce, e si è man mano consolidata sempre più, la motivazione che ha spinto le varie generazioni dei Panni e degli Schiavone Panni a  proseguire  a mantenere la presenza sul territorio continuando l’attività agricola, iniziata ormai da circa 420 anni e creando occupazione ed indotto, aspetto di particolare rilievo in una zona interna, svantaggiata, ma incontaminata,  e con grave crisi occupazionale, in particolare per i giovani, le cui risorse principali sono rappresentate dall’agricoltura e dal turismo.  

In particolare le ultime due generazioni degli Schiavone Panni, Alfredo, libero docente di Patologia speciale medica ed ufficiale medico insignito di 2 medaglie al valore nella prima guerra mondiale mondiale, e Vincenzo, agronomo, dirigente dell’Ente Sviluppo agricolo della Puglia e Basilicata, hanno lavorato in questa ottica vivendo il passaggio peraltro dalla mezzadria alla conduzione diretta del fondo. 

La stessa motivazione ha spinto la generazione attuale, con amore e passione tramandato di padre in figlio, a continuare a gestire l’azienda agricola familiare seppure con grandi difficoltà legate essenzialmente al cambiamento dei tempi, agli effetti di una globalizzazione sempre più marcata che ha avuto ripercussioni di evidente rilievo  sia sull’economia che sullo sviluppo tecnologico, con conseguenze ineluttabili anche per il settore agricolo, creando opportunità ma anche accentuando le problematiche legate al necessario adeguamento dell’organizzazione aziendale che deve essere sempre più orientata al mercato seppure mantenendo l’impegno di salvaguardia e tutela del territorio, in particolare quello incontaminato, esigenza sempre più richiesta dall’opinione pubblica. Le conseguenze sono logicamente anche sull’introduzione di nuove tecniche colturali, basate sull’utilizzo di droni, sul cosiddetto precision farming, la cosiddetta agricoltura 4.0, tecniche che fanno riferimento a sistemi satellitari e GPS, da adottare in una zona svantaggiata che basa la sua agricoltura sull’adozione di tecniche colturali tradizionali, con le tipiche resistenze del settore all’introduzione dell’innovazione tecnologica. L’indirizzo produttivo dell’area infatti è perlopiù cerealicolo, con produzione di orzo, avena e frumento duro con ottime caratteristiche organolettiche. Altre colture diffuse nella zona sono arboree, in prevalenza ulivi, anche ultracentenari, ed annuali, come le foraggere, destinate agli allevamenti zootecnici di grandi dimensioni, le leguminose, e, all’interno dell’azienda agricola Schiavone Panni, la coltura del pomodoro San Marzano. Opportunità di sviluppo locale infine potrebbero essere date dal completamento e realizzazione di opere irrigue sottese alla diga di Acerenza. 

Concludo con una riflessione: la salvaguardia degli edifici più emblematici e significativi della storia dell’agricoltura è un’esigenza fondamentale in quanto la manutenzione dei beni artistici, rurali e naturalistici presenti sul territorio, oltre a rappresentare un caposaldo per lo sviluppo locale e per la difesa dell’ambiente, hanno una valenza storica che riporta alle radici delle nostre famiglie. 

Redazione Fidaf

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