L’agricoltura del passato era più sostenibile?
Ci capita di imbatterci sempre più spesso in testi, siti web o pubblicazioni in cui si favoleggia di un’agricoltura dei bei tempi andati, benevola con l’ambiente in quanto parca nello sfruttare le risorse naturali. Per esempio leggiamo su Agricoltura e Turismo (ma è solo un esempio): “Cominciò un nuovo periodo detto Neolitico: nella terra arida il raccolto, soprattutto all’inizio, era piuttosto magro; invece in zone più fertili, nei pressi dei fiumi, si trovavano frutti e semi molto utili per l’alimentazione, e anche i tuberi garantivano un’adeguata alimentazione. Si trattava di un tipo di agricoltura che oggi potremmo definire ‘agricoltura sostenibile’ che rispettava l’ambiente, la biodiversità e la naturale capacità di assorbimento dei rifiuti della terra”. Secondo questa narrazione, sarebbe poi stata adottata l’agricoltura intensiva o industriale, in cui: “Per sostenere i ritmi della domanda si cercano di forzare i ritmi della natura, modificando gli equilibri ecologici e facendo registrare alti valori di impatto ambientale” (ibidem). I fattori di questa forzatura ‘innaturale’ sarebbero la genetica, la chimica e la meccanica.
Per quanto riguarda l’aggettivazione che spesso segue il termine ‘Agricoltura’ rimandiamo all’ottimo articolo di Luigi Mariani, Alberto Guidorzi, Silvano Fuso e Osvaldo Failla “Alcune riflessioni lessicali sull’ agricoltura”, pubblicato recentemente su Agrarian Sciences. Qui ci preme discutere la visione idilliaca della benigna agricoltura del passato e la sua contrapposizione all’agricoltura di rapina del presente, che presuppone l’ovvia indicazione di un salvifico ritorno alle pratiche del passato per rendere sostenibile la produzione di alimenti.
In realtà l’agricoltura è sempre e comunque una modificazione radicale degli ecosistemi, il cui equilibrio, turbato dall’asportazione di una parte consistente della biomassa prodotta, viene ripristinato con apporti esogeni di energia sotto forma lavoro manuale o meccanico e di concimazioni. Questo concetto è già contenuto nella maledizione divina che accompagna la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden: “maledetta sia la terra per causa tua, con fatica ne trarrai nutrimento tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi ti germoglierà e tu mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra” (Genesi, 3, 17-19).
Le prime forme di agricoltura hanno convertito alcuni ecosistemi naturali in agroecosistemi utilizzando pratiche che comunque ne hanno stravolto la struttura. Si pensi per esempio alla tecnica dello slash and burn che ha convertito foreste in terreni agricoli in molte parti del mondo e che ci risulta difficile classificare come rispettosa dell’ambiente. Il bel libro Collasso – come le società scelgono di morire o vivere del geografo e saggista americano Jared Diamond (Einaudi, 2005) analizza con sagacia molti casi di antiche civiltà il cui declino e la successiva scomparsa sono stati causati da pratiche agricole non sostenibili, che hanno prodotto danni ambientali con conseguente inaridimento delle terre coltivate e esaurimento della produzione alimentare. Tutto questo ben prima che venissero introdotti e diffusi i moderni risultati della ricerca agronomica quali varietà migliorate – e men che meno gli OGM -, fertilizzanti e antiparassitari chimici e mezzi meccanici.
La realtà quindi non è che l’agricoltura del passato possa essere considerata ‘naturale’ o ‘in armonia con l’ambiente’, mentre quella moderna sia da classificare come ‘artificiale’ o ‘industriale’. La realtà è che le pratiche agricole sviluppate in un dato momento storico, a prescindere dal loro grado di sofisticazione tecnologica, possono essere applicate più o meno razionalmente, generando un impatto ambientale più o meno grave e risultando quindi più o meno sostenibili.
La vera differenza tra le epoche antiche e quelle contemporanee – ed ancor più quelle future –risiede nella consistenza numerica della popolazione mondiale. Le civiltà ancestrali, infatti, erano numericamente modeste e quindi in grado di esercitare impatti geograficamente circoscritti, mentre la popolazione odierna è molto numerosa ed in crescita continua e capace di conseguenza di esercitare una pressione diffusa e consistente sull’ambiente del nostro pianeta. La soluzione possibile non può basarsi quindi sul rispristino di pratiche agronomiche obsolete, che non sarebbero in grado di soddisfare la domanda globale di alimenti, ma sull’accorta applicazione degli avanzamenti scientifici di genetica, chimica e meccanica agraria, che permette un’adeguata produzione di alimenti mediante un’oculata utilizzazione delle risorse naturali, nel rispetto dei loro ritmi di rigenerazione.