Agricoltura, ambiente, pandemie e cibo

Agricoltura, ambiente, pandemie e cibo

Ancora una volta, semmai fosse necessario, nel mondo sviluppato e in particolare in Italia alcuni ambienti tentano di mostrare quanto sia grande la contrapposizione fra agricoltura (ormai largamente intensiva) e la salvaguardia dell’ambiente. A consolidare questa posizione è stata in questo caso la pandemia da COVID-19, che è stata immediatamente attribuita ai cambiamenti climatici (e ad ogni altra causa di alterazione dell’equilibrio ambientale, quali l’inquinamento atmosferico da PM10, la deforestazione ecc.), a loro volta fatti prevalentemente ricadere sull’agricoltura intensiva. Non voglio con questo negare le buone ragioni della “galassia” ambientalista, cui sarò sempre riconoscente “per avermi aperto gli occhi” sui rischi della disattenzione ai problemi del sistema pianeta che non ha risorse inesauribili, anche se in qualche caso rinnovabili. Così come il mio riconoscimento va alla iniziativa di Papa Francesco, per la Sua prima Enciclica sul tema ecologico, per avere evidenziato la complessità dei risvolti esistenti fra uomo (e le sue strutture organizzative) e gli altri esseri viventi che, insieme al mondo inanimato, compongono la natura.

Ciò premesso, a preoccupare non sono tanto questi richiami – che in fondo potrebbero essere utili – quanto piuttosto la tendenza a semplificare le connessioni entro i complessi problemi del pianeta (specie quelli che comportano squilibri ambientali); in particolare, laddove si tende a farne ricadere la principale responsabilità sui sistemi agricoli intensivi. Indubbiamente la cosa è comprensibile, visto che la superficie a uso agricolo rappresenta il 37% dell’intera superficie emersa non coperta da ghiacci e visto che il forte aumento degli ultimi due secoli è avvenuto a scapito prevalentemente delle foreste e di altre aree naturali. Però si trascurano due particolari:

  • Il primo che non è l’agricoltura ad occupare nuovi terreni, ma la popolazione che… crescendo… chiede più cibo e pertanto cresce l’agricoltura che può produrlo, ma su congrue superfici;
  • Il secondo che, dal 1960 circa, è in corso una rivoluzione che ha rotto il predetto legame “perverso”: più popolazione, più cibo, più superficie occupata dall’agricoltura. Infatti, dai 3 miliardi siamo ora a 7,8 miliardi, ma la superficie agricola è mutata poco o nulla; il tutto grazie a questa rivoluzione…il cui nome è inviso a molti: agricoltura intensiva.

Vi sarà pure una ragione a questa evidente discrasia fra segnalazione dei problemi, in certa misura obiettiva, e le ragioni – spesso immotivate – cui vengono attribuiti; una diagnosi di questa discrasia è d’altra parte fondamentale, poiché si associa al rischio di suggerire soluzioni poco efficaci o controproducenti. Se infatti è vero quanto sopra, è ovvio che essere contrari all’intensificazione costituisce una sorta di “autolesionismo”, anche se – come sostenuto dalla FAO – ad agricoltura intensiva andrebbe aggiunto l’aggettivo “sostenibile”. Benché vi possa essere il rischio che si tratti di una parola vuota, ad essa è ormai possibile dare corpo: invertendo la perdita di fertilità (accrescendo la sostanza organica), minimizzando l’uso di fertilizzanti e di agro-farmaci (per attenuare i rischi di contaminazione degli alimenti e di inquinamento di acque e suoli), ma soprattutto con il miglioramento di piante e animali, nonché ricorrendo ad attrezzature capaci di alleggerire il lavoro umano, ma anche di renderlo sempre più accurato e preciso. Da notare altresì che questa discrasia è spesso frutto di “intrusioni” di tipo ideologico, da parte di scienziati che palesemente non hanno competenze specifiche (medici, economisti, geologi, sociologi ecc.), ma si sentono autorizzati a condannare i sistemi agricoli in uso, suggerendo alternative oltremodo semplificate e non di rado immotivate. Anche per loro, forse, potrebbe valere quanto recentemente ammesso da Bill Gates che, a pag. 181 di CLIMA: come evitare un disastro (le soluzioni di oggi, le sfide di domani), parlando delle grandi intuizioni di Borlaug, padre della “rivoluzione verde” e per questo premio Nobel, ammette candidamente di non sapere dell’esistenza degli “agronomi”; di qui la spiegazione del fatto che raramente è sentita la necessità di consultarli?  Comunque sia, rimane la tendenza a semplificare problematiche complesse, col rischio di trascurare la realtà; ne sono stati recenti esempi:

  1. il Report di EAT-Lancet (2019) che da un lato afferma che una dieta salutare per uomo e ambiente è – in buona sostanza – quella vegetariana-vegana, con l’agricoltura limitata alla coltivazione delle piante, poi consumate direttamente dall’uomo. D’altro canto, lo stesso report ammette che, nei Paesi a basso reddito, l’esclusione degli alimenti di origine animale è da considerare con cautela a ragione della imperante malnutrizione (e questa non potrebbe tornare anche nei Paesi sviluppati, se tali alimenti venissero esclusi o ridotti eccessivamente?);
  2. l’editoriale della rivista medica Lancet, 9-15 gennaio 2021: “Climate and COVID-19: converging crises”, che afferma: “Curbing the drivers of climate change will help to suppress the emergence and re-emergence of zoonotic diseases that are made more likely by intensive farming…”. Dunque, fra le attività umane causa del cambiamento climatico e (a suo dire) delle pandemie, cita unicamente l’agricoltura intensiva. Peccato che, almeno per il cambiamento climatico, sia l’opposto di quanto afferma il non meno autorevole World Resources Institute (2018): “Increased efficiency of natural resource use is the single most important step toward meeting both food production and environmental goals…. If today’s levels of production efficiency were to remain constant through 2050, then feeding the planet would entail clearing most of the world’s remaining forests…” In sintesi, proprio grazie alla maggiore produttività – dunque all’agricoltura intensiva – si riuscirà a limitare il ricorso alle aree ancora naturali (le foreste).

Come si vede, chi si occupa espressamente di sistemi agro-alimentari nel mondo (il predetto Report è frutto della collaborazione di The World Bank, UN Environment, UNDP, CIRAD e INRA), conferma che uno dei principali problemi del momento: produrre cibo sufficiente e nutrizionalmente appropriato (che include giusti apporti di carni, latte e uova), ma salvaguardando il pianeta, ha nel concreto una sola opzione: l’intensificazione sostenibile che la FAO definisce “di più con meno”. La seconda opzione, infatti, sarebbe gravemente peggiorativa: aumentare la superficie agricola, come si è fatto fino al 1960, significherebbe… farlo a spese delle foreste.
Esiste semmai un dubbio: sarà possibile attuare l’agricoltura intensiva sull’intero pianeta? Per quanto sia la FAO a sostenerla, non è facile immaginare come estenderla ai Paesi a basso reddito, dove vive il 40% e oltre della popolazione mondiale (ma questo è altro problema, del quale si è già parlato da queste pagine).

COVID-19 e sue cause

Abbiamo sin qui provato a dimostrare che sono in larga misura false le attribuzioni, all’agricoltura intensiva, di essere causa di problemi ambientali, a prescindere. Che dire ora dell’essere causa (o concausa) della pandemia da COVID-19? A quanti l’avessero scordato, ricordo che, sin dall’immediato della sua comparsa (2020), è iniziata una serie di interventi giornalistici sul virus SARS-CoV-2 (causa della malattia COVID-19), in genere con l’intento di dimostrare la sua possibile relazione con l’alterazione della natura e, “a monte”, con l’agricoltura. In particolare, vi sono stati interventi di M. Tozzi (geologo) su la Stampa del 16 marzo, di G. Schinaia (esperto di diritto) su Avvenire del 18 marzo e 15 aprile, di Davide Milosa (Storico della Filosofia) e Maddalena Oliva (Giornalista) su il Fatto Quotidiano del 19 marzo, di Grammenos Mastrojeni (Diplomatico) e Fiorella Belpoggi (Medico-scienziata) su Ecopolis del 25 marzo, di Francesco De Augustinis (Scienze della Comunicazione) su Il Salvagente del 26 aprile, di Francesco Sala (animalista e giornalista) su il Corriere della Sera del 29 aprile e molti altri successivamente. Ad accomunarli, insieme al virus, una costante: gli autori sono si esperti, ma non di agricoltura (e nemmeno di biologia). L’idea di fondo di questi articoli, e di un servizio televisivo di Report del 13 aprile 2020, è stata la seguente: l’agricoltura intensiva (soprattutto l’allevamento) è la causa di una lunga serie di impatti negativi sull’ambiente (deforestazione, inquinamento, cambiamenti climatici ecc.), che nel loro insieme hanno portato all’emergere del SARS-CoV-2 e/o contribuito all’esplosione pandemica della COVID-19.
In un precedente articolo (Bertoni, 2020), ho già avuto l’occasione per far notare che, sulla base delle considerazioni portate dai predetti interventi giornalistici, le domande da porci sono due: i) corrisponde al vero che lo spillover dei virus zoonosici, cioè il “salto di specie” dagli animali selvatici all’uomo, sia inequivocabilmente legato alla deforestazione? ii) inoltre, una volta avvenuto lo spillover, la strada verso l’epidemia-pandemia è inevitabilmente segnata?
Per quanto possa sembrare aprioristica, ma ahimè fondata come vedremo, la mia risposta per entrambi i quesiti è stata negativa per le seguenti ragioni:

  • la deforestazione non è per nulla necessaria se, come si deduce dalle polemiche in atto circa la “nascita” della Covid-19, lo spillover è avvenuto nel “wet market” di Wuhan, che nulla ha in comune con la deforestazione, ma piuttosto con il desiderio dei “ricchi” cinesi di gustare le prelibatezze della cacciagione fresca proveniente dalle foreste. Lo stesso tipo di rischio per spillover si ha in molti Paesi africani – in questo caso frutto della povertà – dove la caccia ai selvatici della foresta è un modo per ovviare alla mancanza di proteine di origine animale, attribuibile all’agricoltura di sussistenza. In entrambi i casi, si assiste a una elevatissima pressione sulla fauna naturale (con perdita di biodiversità), cacciata con ogni mezzo all’interno della foresta (non fuggita da essa) e tenuta in vita per i “wet market” cinesi, o viceversa uccisa, affumicata e spesso riscontrata sui banchetti dei mercati in Africa;
  • anche per il secondo quesito, se cioè sia bastevole il salto di specie (spillover) per portare alla pandemia, vorremmo nuovamente citare come esempio il caso di Wuhan; l’anziano epidemiologo cinese Zhong Nanshan, richiamato in servizio il 18 gennaio 2020, al culmine della epidemia cinese, ha dichiarato al Corsera del 18 maggio 2020 (Guido Santevecchi) che le autorità locali continuavano a minimizzare affermando che vi erano solo 41 persone con i sintomi della Covid-19. Se oggi sappiamo che la sua origine è fatta risalire almeno a fine ottobre/metà novembre 2019, la diffusione a metà gennaio doveva già essere notevole; prova ne sia che la provincia dell’Hubei è stata chiusa dal 23 gennaio e per 76 giorni. Questa serie di ritardi-omissivi, indipendentemente dal fatto che Pechino ne fosse o meno a conoscenza, ha consentito la fuoriuscita dalla Cina e una vasta diffusione della Covid-19, prima di un qualche intervento di contenimento, di qui la pandemia.

A ciò peraltro aggiungevo che se la deforestazione e gli squilibri ambientali non sono una condicio sine qua non per lo spillover, nondimeno possono avere un ruolo, vero è che il Report di UNEP Frontiers (2016), insieme a quanto detto in precedenza, ha da tempo riconosciuto che nella prevenzione di queste malattie: “Il successo richiede di affrontare le cause profonde dell’emergenza delle malattie: insite nelle attività umane che tendono ad alterare gli ecosistemi riducendone la capacità di funzionare.”  Con ciò intendendo che i sistemi naturali integri svolgono una funzione “barriera” (e su questo concordiamo); peraltro, gli stessi autori, aggiungono che gli allevamenti intensivi – essendo costituiti da animali geneticamente omogenei – possono fungere da ponte fra fauna selvatica e uomo. Su quest’ultima osservazione esprimiamo più di una riserva poiché, contemporaneamente, tali allevamenti sono necessariamente costituiti da unità produttive strettamente controllate sul piano sanitario e facilmente isolabili nel caso di emergenza (naturalmente ci riferiamo ai Paesi avanzati, non certo a quelli emergenti come la Cina; ma di nuovo siamo alla cattiva gestione dei problemi per mancanza di esperti competenti, non alla loro ineluttabilità).

In tempi più vicini all’attualità, sia pure con minore frequenza, si sono succedute “ondate” non solo della COVID-19, ma anche di contributi volti a confermare la predetta relazione: agricoltura intensiva-degrado della natura-zoonosi pandemica; per cui, come spesso accade per effetto di questo sistema informativo, quantomeno discutibile, una “fake-news” ripetuta diventa una “verità vera”. A conferma di questa amara constatazione, il fatto che – a tutt’oggi – nessuna rilevanza abbia avuto la recentissima pubblicazione (12 aprile 2021), da parte della World Health Organization (WHO), del documento “Reducing public health risks associated with the sale of live wild animals of mammalian species in traditional food markets”. In essa, si tende anzitutto a vedere la “nascita” delle epidemie provenienti dagli animali (zoonosi) all’interno dei mercati dove si scambiano animali selvatici ancora vivi; infatti, vi si afferma: “Significant problems can arise when these markets allow the sale and slaughter of live animals, especially wild animals, which cannot be properly assessed for potential risks – in areas open to the public.” Come si vede, non si parla di pipistrelli o di altri animali che, estromessi dalla foresta distrutta, si approcciano all’uomo; bensì dell’uomo che li va a catturare-cacciare e in tal modo facilita lo spillover, esattamente come da me scritto in precedenza (Bertoni, 2020). Infine, lo stesso documento conclude: “The purpose of this document is to provide guidance for food safety and other relevant authorities to reduce the risk of transmission of COVID-19 and other zoonoses in traditional food markets. Although this document focuses on the risk of disease emergence in traditional food markets where live animals are sold for food, it is also relevant for other utilizations of wild animals. All these uses of wild animals require an approach that is characterized by conservation of biodiversity, animal welfare and national and international regulations regarding threatened and endangered species.” Dunque, è per certo indispensabile impedire che lo spillover avvenga, ma poi se ne deve evitare l’eventuale diffusione con i ben noti strumenti di controllo atti ad evitare le epidemie; inoltre, è importante la sollecitazione a far si che – almeno le popolazioni più povere – non siano costrette a “saccheggiare” le foreste in quanto possono godere della disponibilità di alimenti idonei (pertanto anche di quelli di origine animale); ma questo è possibile solo con l’agricoltura intensiva, ancorché sostenibile (FAO, 2011).

Considerazioni conclusive

Abbiamo visto che l’informazione contro l’agricoltura intensiva è quantomeno discutibile; così come non si comprende l’ostracismo contro la “chimica” in agricoltura, ma non contro i prodotti per la casa e la cura personale (detersivi, disinfettanti, cosmetici ecc.) che, senza depuratori funzionanti, “massacrano” fiumi e mari. Persino l’UE è contro l’agricoltura intensiva e pare ritenere salvifico tutto quanto abbia l’appeal di naturale, sinonimo di: buono, pulito e giusto. Con questo appeal abbiamo l’agricoltura biologica, osannata per l’opposizione ai fertilizzanti e agro-farmaci di sintesi, come fossero necessariamente più pericolosi di quelli “organici”, peccato sia decisamente poco produttiva e quindi richieda superfici più ampie (magari nei PVS). Con la medesima logica è osannata la strenua contrarietà agli interventi di tipo genetico (non solo OGM); peccato che così si rallenti l’ottenimento di piante e animali più efficienti e più resistenti alle avversità, dunque meno impattanti. Come si vede, assai spesso le proposte avverso l’agricoltura intensiva, hanno come conseguenza l’esatto opposto di quanto teorizzato; analogamente, del tutto modeste sono le probabilità che alla stessa possa essere imputata l’insorgenza della COVID-19.

Se tuttavia poniamo attenzione alle notizie che giungono nelle nostre case, anche con i telegiornali, sono a senso unico e contro quanto detto sopra; il rischio è allora quello dello scoramento, anche perché nel nostro mondo non mancano le voci autorevoli che vanno nella medesima direzione. Pertanto, mi limito a richiamare la pura e semplice realtà: l’agricoltura ha un considerevole effetto sulla natura, ma altrettanto innegabile che il cibo ad essa “richiesto” sia, per quantità e qualità, in stretta relazione a numerosità ed esigenze della popolazione mondiale, entrambe in aumento. Che fare se, secondo il Report WRI (2018), le auspicate sobrietà nei consumi e riduzione di perdite e sprechi non basteranno a impedire l’aumento produttivo necessario e, da qui al 2050, servirà almeno il 30% in più di cibo? A questo punto è inutile tergiversare, anche perché – a chi ha un minimo di competenze e non si vuol limitare al proprio “orticello” del made in Italy – appare evidente che la scelta per coprire tale “gap” è limitata a due opzioni: i) occupare altre aree naturali, come accadeva sino al 1960, con buona pace per le foreste da abbattere; ii) oppure affidarsi all’intensificazione – sia pure da rendere anche sostenibile come insegna la FAO (2011) – che riduce tutti i termini dell’impatto ambientale, compresa l’occupazione di suolo.

Bigliografia

Bertoni G. (2020) L’agricoltura intensiva e la pandemia da Covid-19, in Agricoltura è cultura – Aggiornamento del 3 giugno 2020 (Bollettino Società Agraria di Lombardia);

FAO (2011) Save and growth (A policymaker’s guide to the sustainable intensification of 
smallholder crop production), Rome;

UNEP Frontiers (2016) Report Emerging Issues of Environmental Concern;

World Health Organization, “Reducing public health risks associated with the sale of live wild animals of mammalian species in traditional food markets” (12 April 2021);

World Resources Institute (2018), SYNTHESIS REPORT: Creating a Sustainable Food Future: A Menu of Solutions to Feed Nearly 10 Billion People by 2050.

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Autore : Giuseppe Bertoni, Professore Emerito di Zootecnia Speciale, Università Cattolica del Sacro Cuore

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