La carestia dopo l’epidemia?

La carestia dopo l’epidemia?

Riflessione del presidente della SAL

La Commissione UE sarebbe in procinto di emanare una “Comunicazione sulla nuova strategia per la biodiversità” dai contenuti come sempre definiti “ambiziosi”, ma fortemente penalizzanti per l’agricoltura intesa come attività produttiva. Una notizia che sta suscitando qualche ulteriore scoramento tra gli agricoltori già provati dall’incertezza (ed in alcuni casi purtroppo da malattia e lutti) derivante dall’emergenza sanitaria in atto. Le informazioni sugli effettivi contenuti del testo in questione e sulle sue reali ricadute a livello normativo sono ancora troppo frammentarie per esprimere valutazioni definitive. Da quanto trapelato a livello di indiscrezioni si prospetterebbe l’estensione delle aree protette (su cui non è chiaro se l’attività agricola produttiva sia consentita, più o meno limitata, o del tutto vietata) sul 30% della superficie terrestre dell’UE (oltre che su quella marina, che pare piuttosto difficile da determinare); verrebbe inoltre imposto l’abbandono obbligatorio di almeno il 10% dei terreni attualmente coltivati, oltre all’introduzione degli ormai immancabili “indicatori”, in questo caso rappresentati dall’obiettivo di avere “il 30% coltivato a biologico” unitamente al “taglio del 50%” dei fitofarmaci, invariabilmente ribattezzati “pesticidi”. Sul tema della cosiddetta “biodiversità” (termine di cui molti sembrano riempirsi la bocca senza sapere cosa significhi) l’UE pare avere comunque idee piuttosto contraddittorie, tanto che in un altro documento, denominato “Comunicazione Farm to Fork”, verrebbero finalmente riconosciute le potenzialità positive delle nuove biotecnologie per il miglioramento genetico sia in termini di resilienza delle colture che di incremento della vera biodiversità, che si ottiene rendendo dinamico e non statico il  patrimonio genetico disponibile. Per contro un recente lavoro di due ricercatori francesi (Xavier Poux e Jean-Marie Aubert di TYFA Project), che sta suscitando sconcerto e dibattito nella comunità scientifica, indica come obiettivo di una “virtuosa” svolta agroecologica la riduzione entro il 2050 del 35% della produzione agroalimentare europea in termini nutrizionali rispetto al 2010!

L’abbandono degrada l’ambiente

Qualche risicoltore chiede quali impatti potrebbe avere l’ipotetico abbandono di percentuali più o meno rilevanti di terreni coltivati sulla sostenibilità economica dell’attività agricola. Non pare possibile in questa sede dare una risposta al quesito, in quanto gli impatti potrebbero essere molto diversi in funzione delle caratteristiche geopedologiche e vocazionali delle zone interessate. Ma soprattutto potrebbero essere più o meno gravi in funzione della dimensione delle aziende coinvolte, con quelle di maggiore superficie verosimilmente meno penalizzate sul piano dei costi fissi, e quindi con un indiretto incentivo alla creazione di latifondi.  Tuttavia, un esempio di quanto l’abbandono delle superfici agricole (e quindi dei paesaggi e degli assetti idrogeologici modellati nel tempo dall’uomo) incida negativamente sull’ambiente, potrebbe essere dato dal disordinato ed incontrollato estendersi di superfici boschive  di pessima qualità che si registra in molti areali della dorsale appenninica, con conseguenze spesso negative o addirittura disastrose sull’equilibrio ambientale.

La criminalizzazione dell’agricoltura

Nelle campagne tuttavia, insieme alle preoccupazioni per l’attuale emergenza -sia in termini di tutela della salute che di organizzazione del lavoro (cominciano a sorgere gravi problemi di reperibilità di ricambi per le macchine agricole, che si aggiungono ai timori sull’approvvigionamento di fertilizzanti e prodotti fitosanitari)- cresce l’insofferenza per la vera e propria opera di criminalizzazione dell’agricoltura produttiva in atto da alcuni mesi in Italia ed in Europa. E che negli ultimi tempi sembra assumere maggiore virulenza, con reiterati attacchi all’agricoltura produttiva, descritta come perfida  fonte di tutti i mali del mondo anche da parte di alcune trasmissioni radiotelevisive dell’emittente di Stato. Fino al diffondersi di strampalate tesi (giustamente stigmatizzate da una nota inviata dalle associazioni di rappresentanza della zootecnia italiana alla RAI) che vorrebbero imporre un singolare sillogismo per cui il presunto “spillover”, ovvero il passaggio di un patogeno da animale selvatico alla specie umana, che sarebbe alla base dell’attuale pandemia, verrebbe imputato all’esistenza degli …allevamenti zootecnici ad uso produttivo! Ben pochi hanno rilevato invece la significativa riduzione che secondo alcuni dati si starebbe verificando nelle ultime settimane nelle emissioni di gas climalteranti nell’areale padano. Fenomeno che, se confermato, avverrebbe mentre le attività agricole sostanzialmente proseguono e negli allevamenti (indicati da tanti “ambientalisti” come la causa primaria delle emissioni) gli animali continuano ad alimentarsi, emettere e produrre deiezioni esattamente come prima del fatidico 21 febbraio. Nessuno obietta alcunché circa gli indispensabili interventi di “sanificazione” di ambienti confinati e pubblici cui assistiamo ogni giorno. Interventi realizzati con impiego di immensi volumi di prodotti chimici a bassa o nulla selettività ed elevata attività biocida, che in genere vengono scaricati in rete fognaria o direttamente in corpi idrici superficiali. Ma viene da sorridere amaramente pensando alle levate di scudi per vietare l’altrettanto inevitabile impiego di pochissimi grammi per ettaro di fitofarmaci magari dotati di meccanismi di azione a bassissimo rischio per l’uomo e l’ambiente. Sarebbe paradossale se in questo contesto trovassero conferma le recentissime ipotesi di Monash University e Royal Melbourne Hospital circa la presunta efficacia sperimentata in vitro di un farmaco impiegato come antiparassitario ad uso zootecnico per debellare il virus Sars-CoV2…

La carestia dopo l’epidemia? 

Il vero problema di fondo, che già si prospettava in passato ed oggi appare in tutta la sua evidenza,  resta quello di garantire per il futuro un sistema agricolo ed agroalimentare in grado di produrre materie prime, cibo e beni di consumo, a prezzi accettabili (in particolare a fronte della prevedibile riduzione di reddito spendibile da parte della popolazione), conformi a standard qualitativi prestabiliti, con un razionale sistema di scorte e una struttura commerciale in grado di soddisfare con continuità le esigenze dei consumatori finali. Si tratta di un problema chiaramente percepito da tempo dai più attenti studiosi di cose agricole. Non a caso, come Società Agraria di Lombardia, abbiamo dedicato a queste tematiche seminari e convegni (come quello su “Carestie, penurie e sicurezza alimentare” dell’ottobre 2017 – scarica Atti del convegno Carestie, penurie e sicurezza alimentare), oltre alla prolusione di apertura del 159° Anno Accademico, affidata al prof. Andrea Sonnino e forzatamente rinviata a causa dell’emergenza sanitaria. Secondo alcuni osservatori il rischio di ripercussioni sull’approvvigionamento alimentare, specie nel caso in cui dovessero prevalere alcune  teorie di “decrescita” richiamate poc’anzi, sarebbe reale. E porterebbe ad un ribaltamento del tradizionale schema storico, per cui la carestia seguirebbe l’epidemia anziché precederla, con conseguenze imprevedibilmente drammatiche. Secondo altri osservatori invece i Paesi europei ed in particolare l’Italia alla fine dell’emergenza “…pulluleranno di investitori stranieri dagli aspetti anche fra i più esotici…” (par di capire russi, cinesi, o altri asiatici) pronti a comprare a prezzi di saldo terreni, aziende e magari marchi italici più o meno prestigiosi.

La centralità dell’agricoltura

Non sappiamo quando e come l’emergenza in atto finirà, né quali saranno le condizioni in cui ci si troverà al momento della “ricostruzione”. Sappiamo tuttavia che da questa crisi agricoltura e scienza risaltano in tutta la loro centralità e nella loro imprescindibile essenzialità. La sicurezza degli approvvigionamenti alimentari si conferma un elemento strategico fondamentale tanto per l’autodeterminazione degli Stati quanto per il mantenimento dell’ordine pubblico.In questa prospettiva meritano di essere attentamente meditate le riflessioni dell’amico prof. Dario Casati in un recente editoriale per l’Accademia dei Georgofili: «Occorre ripensare la nuova Pac dopo l’inatteso ritorno al passato nella società, nell’economia e nelle vite degli europei. Avere il coraggio di sostenere il settore primario, anche per ragioni di sicurezza strategica. È giunto il momento di smettere di inseguire fumosi sogni di agricolture alternative figlie dell’anti-scienza o di miopi regole sulle pratiche agricole. Dobbiamo tornare a un’agricoltura sostenibile e avanzata, sorretta dal vero progresso scientifico. È così che si aiuterà la ripresa e la tenuta, anche sociale, del Paese».  Duole constatare che a fronte di tanto pragmatico equilibrio i burocrati di questa “piccola” Europa dei vincoli e dei divieti sembrano intenti ad inseguire “ambizioni” sempre più avulse dalla realtà e dalla logica. E che per farlo rischiano di “suicidare” il magnifico sogno di una vera integrazione come quello che aveva ispirato i grandi artefici dell’originaria Europa delle opportunità e delle libertà.

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Redazione Fidaf

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