Transumanza e tratturi: patrimonio dell’umanità

Transumanza e tratturi: patrimonio dell’umanità

La migrazione stagionale di greggi alla ricerca di pascoli  più verdi – definita transumanza – è una pratica antichissima, che ebbe notevole sviluppo tra la pianura pugliese del Tavoliere e i monti circostanti, soprattutto dell’Appennino abruzzese. Lo stesso termine Tavoliere è in qualche modo legato alla pratica della transumanza: le terre a pascolo erano infatti accatastate nella Tabula censoria (Tabulario). Le greggi scendevano da ottobre a maggio dai monti abruzzesi e molisani soprattutto verso la Puglia.

Della pastorizia transumante e delle antiche vie della lana si ha notizia dall’epoca preromana; ma fu nel periodo dell’impero romano, come testimoniato da storici dell’agricoltura (Varrone, in particolare), che la pratica conobbe un notevole sviluppo, codificata da leggi , “scolpita” sul territorio mediante una fitta rete di piste tratturali, in parte – purtroppo minima – ancora esistenti.

Si ha conferma, così, che in età tardoantica  i due elementi più significativi della storia del paesaggio erano costituiti dalla progressiva espansione del latifondo imperiale e dallo sviluppo delle attività collegate alla transumanza. Vasti appezzamenti di terreno caratterizzavano le grandi proprietà imperiali e private,  soprattutto nelle aree con presenza di vasti pascoli. E’ indubbio che il Tavoliere abbia svolto un ruolo centrale nelle attività connesse alla transumanza, tra l’area appenninica e l’Apulia settentrionale.

L’allevamento transumante consentiva notevoli profitti a fronte di investimenti ridotti rispetto a quelli richiesti dalle colture tradizionali. Oltre a quella delle pecore, la cui tosatura primaverile garantiva lo sviluppo di una notevole attività laniera, molto redditizia, era interessante la redditività della produzione di latte, formaggi, carne.

All’inizio del III secolo è documentata la presenza a Lucera (FG) di un Procuratore incaricato della gestione delle terre pubbliche incolte, destinate al pascolo lungo la strada Aecae (l’attuale Troia) – Sipontum.

Con gli Aragonesi la “mena delle pecore” venne perfezionata e la  pastorizia transumante ebbe definitiva e stabile organizzazione. Le principali novità erano costituite dal collegamento istituzionale, tramite lo Stato, tra i possessori di bestiame dell’Abruzzo e i proprietari di terreni in Capitanata, obbligati a gestirli a pascolo, nonché dalla istituzione della Dogana delle pecore – che regolava l’assegnazione ed il fitto dei pascoli demaniali – che ebbe sede a Lucera dal 1447 al 1468 e successivamente a Foggia, fino al 1806.

Alfonso d’Aragona stabilì che tutta l’attività  economica e mercantile che ruotava attorno alla transumanza e alle pratiche armentizie venisse interamente statalizzata, divenendo la principale attività economica del Regno, perché interessava non solo i locati (proprietari delle greggi iscritti nei registri della Dogana), ma anche i massari, le loro famiglie, i proprietari dei terreni attraversati dai tratturi e, principalmente, l’erario, al quale, la pastorizia garantiva entrate sicure. La difficoltà maggiore consisteva nell’accrescere quanto più possibile la superficie destinata a questo tipo di attività, che mirava innanzitutto ad esportare lana per l’industria tessile europea e dell’Italia centrosettentrionale, senza tuttavia sopprimere la cerealicoltura, anch’essa orientata verso l’esportazione. Per questo tutta la pianura del Tavoliere fu divisa in 23 locazioni, ed ogni locazione in poste, che dovevano essere cedute ai pastori in possesso di greggi superiori ai 20 capi, dietro pagamento di un canone d’affitto annuo, detto fida. I locati dovevano poi vendere in maggio, alla Fiera di Foggia, tutti i prodotti della pastorizia: la lana, il prodotto più importante dell’allevamento ovino, ma anche animali, carne, latte e derivati. In compenso essi avevano il diritto di utilizzare senza spese i tratturi, non pagare dazio sui viveri trasportati per il proprio nutrimento, essere giudicati soltanto dalla Dogana, i cui magistrati erano gli unici ad avere giurisdizione su chiunque, lungo l’intero percorso tratturale, si occupasse di pastorizia e di commercio di lane o formaggi. Inoltre i Comuni (Università) erano tenuti alla tutela ed alla salvaguardia delle aree tratturali che attraversavano il loro territorio, mentre durante il viaggio la Dogana forniva pane ai pastori.

Entro il 28 novembre, il Doganiere assegnava ai locati l’area di pascolo, che andava, per ogni 100 pecore, da 24 a 49 ettari, a seconda della natura del terreno. Nelle terre salde, che erano quelle di maggior pregio dal punto di vista pascolativo, era proibita la coltivazione; mentre in quelle in cui era consentita, occorreva utilizzare uno speciale aratro, in modo da non distruggere le radici delle erbe, che venivano utilizzate, dopo la semina, per il pascolo. Secondo le disposizioni aragonesi, il passaggio degli armenti avveniva su “tratturi” collegati tra loro da “bracci” e “tratturelli”. I tratturi erano larghi 60 passi napoletani (111,60 metri) e permettevano il transito di alcuni milioni di ovini senza sconfinamenti nei terreni adiacenti; i tratturelli, di larghezza variabile a seconda dei luoghi destinati agli stazionamenti laterali per non intralciare il passaggio degli armenti, si diramavano dai tratturi, intersecandoli. Adiacenti ai tratturi vi erano i “riposi”, vasti spazi erbosi (fino a 50 ha) nei pressi di sorgenti o fonti d’acqua, dove le greggi potevano sostare fino a tre notti, in attesa dell’assegnazione delle locazioni in Puglia. Le principali vie di spostamento stagionale del bestiame in Capitanata erano i tratturi L’Aquila – Foggia (Tratturo del Re, il più lungo, 243 km); Celano – Foggia (207 km); Castel di Sangro – Lucera (127 km) e Pescasseroli – Candela (211 km).

Per secoli, gli introiti della mena delle pecore rappresentò una delle voci più consistenti del bilancio statale e dell’economia del Vicereame di Napoli, che trasse dalla pastorizia,  a scapito dell’agricoltura, la maggior parte delle sue entrate. La lenta fine della transumanza si ebbe a partire dall’età illuministica, quando, segnalando l’arretratezza di un sistema economico che sottraeva terre fertili allo sviluppo dell’agricoltura, la borghesia agraria privata ebbe il sopravvento sull’industria collettivizzata dei pastori.

Con provvedimenti di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, re di Napoli dal 1806 al 1808 il primo e dal 1808 al 1814 il secondo, venne consolidata la politica di liberalizzazione dei terreni dall’obbligo di utilizzarli a pascolo permanente per la transumanza e la conseguente bonifica delle vaste aree paludose, arginando i torrenti che esondavano.

La crescita delle attività agricole fu sostenuta anche mediante l’abolizione dei benefici riservati a feudatari e conventi e la costituzione di centri di residenza, tuttora abitati da discendenti di emigranti agevolati, soprattutto albanesi, greci, dalmati e provenzali.

Un riconoscimento assai importante del Comitato UNESCO, dell’11 dicembre 2019, dà conferma del generale convincimento che la transumanza e i tratturi hanno favorito il benessere animale e il rispetto dei ritmi delle stagioni, costituendo, nel contempo, un approccio favorevole per affrontare le sfide della crescente urbanizzazione.

Il predetto riconoscimento dell’UNESCO ha portato l’Italia al primo posto nella graduatoria  relativa al patrimonio naturale immateriale, per ben tre riconoscimenti: oltre a tratturi e transumanza (2019),  vite ad alberello di Pantelleria (2014), arte dei muretti a secco (2018); riconoscimenti che – secondo il condivisibile parere del Rappresentante italiano nel Comitato UNESCO, Pier Luigi Petrillo – “non fanno riferimento a fattori folkloristici, poiché sono volti al miglioramento di itinerari turistici e ambientali, per valorizzare i nostri territori”.

pecore

Redazione Fidaf

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