“Acetaria”, i sottaceti degli antichi Romani
La nostra specie con il passaggio da una cultura migratoria di caccia e pesca a una cultura agricola sedentaria deve affrontare e risolvere il problema della conservazione degli alimenti e per questo sviluppa appropriate tecnologie riconducibili all’essicamento, salagione, fermentazione e acidificazione, assieme alla creazione di adeguati strumenti e contenitori come i granai, le anfore e gli orci e via dicendo, in un processo di sviluppo tecnologico mai terminato e oggi in pieno sviluppo sia per nuovi processi di conservazione (refrigerazione, congelamento, surgelazione, pastorizzazione, iperpressioni ecc.) che per i contenitori (Tetrapak, atmosfere protettive, involucri intelligenti ecc.).
Molto si è studiato e scritto sull’origine e il progresso delle tecniche di conservazione degli alimenti nel passato, ma non mancano le sorprese peraltro ricche d’interesse per attuali, possibili applicazioni. Di indubbia importanza è quanto emerge dalla nuova interpretazione che il filologo Enrico Carnevale Schianca dà al termine latino acetaria e che porta considerare meglio la conservazione degli ortaggi da parte degli antichi romani (Carnevale Schianca E. – “Una proposta per gli acetaria di Plinio” – Studi Italiani di Filologia Classica – 2, 2018, pag. 203 – 212).
Nel XIX libro della Storia naturale Plinio tratta degli ortaggi esaltando le cure dedicate dagli antichi alla coltivazione degli orti e qui fa la sua prima comparsa la parola acetaria, attestata una seconda volta nel XX libro della enciclopedia pliniana e che rimane priva di altre testimonianze nella latinità classica. Il termine sconosciuto al latino medievale è riesumato, con sorprendenti fortune, nel latino degli umanisti finendo per affermarsicome sinonimo di insalata. Ad esempio Acetaria. A Discourse of Sallets è una pubblicazione di John Evelin (edizione del 1699 in America).
In una dotta e al tempo stesso minuziosa analisi, Carnevale Schianca mette in evidenza che acetaria si presenta come un plurale collettivo che designa tutti quei prodotti dell’orto immediatamente disponibili al consumo, senza che sia necessario cuocerli. Dunque ortaggi che si possono consumare crudi, ma non con un’equivalenza di acetaria = insalata, e Carnevale Schiancapropone per acetaria gli ortaggi conservati con l’aceto, simili ai nostri sottaceti e da qui la seguente, nuova versione del testo pliniano: Dell’orto erano soprattutto graditi quei prodotti che non avessero bisogno del fuoco e facessero risparmiare legna, cose presto disponibili e sempre pronte al consumo, con cui si preparano anche i sottaceti, facili da digerire e che mangiandosi non appesantiscono i sensi.
Il sottaceto o sottoaceto è un metodo di conservazione degli alimenti tramite una fermentazione anaerobica data da una salamoia che produce i batteri dell’acido lattico o marinando il cibo in una soluzione acida come l’aceto. L’alimento così conservato è noto come sottaceto, e la procedura conferisce ai prodotti un sapore tipicamente salato o aspro. Molti sono i sottaceti vegetali.
Già al tempo dei romani importanti sono gli orti dove si coltiva ogni sorta di ortaggi che variano di stagione in stagione, ma dei quali è utile una conservazione che, a parte taluni semi (lenticchie, ceci ecc.) non possono essere salvaguardati con l’essiccamento o neppure con una semplice salatura. Per alcuni ortaggi Columella, nel XII libro del suo trattato di agricoltura, riporta che la portulaca e il finocchio marino, due vegetali dalla caratteristica carnosità delle foglioline e delle quali si raccolgono le cime più tenere, dopo essere fatti appassire all’ombra per quattro giorni si possono conservarein giare di terracotta, con una spolverata di sale sul fondo e in superficie, e l’aggiunta finale di aceto fino a coprire il tutto. È quindi da ritenere, cita Carnevale Schianca, che i romani conservassero un numero ragguardevole di erbe e ortaggi, sotto forma di germogli, turioni, radici, infiorescenze, dopo opportuna preparazione, in una mistura di aceto e salamoia satura (in genere due parti del primo e una della seconda), dentro dogli di terracotta tappati con fasci di piante di finocchio secche, costituendo preziose riserve per la stagione invernale, quando questi sottaceti possono consumare, crudi oppure cotti, dopo averli sciacquate nell’acqua o nel vino e conditie con l’olio. Queste conserve, che Columella chiama salgama,e salgamarius è il preparatore e venditore di queste preparazioni, posssono essere identificate con gli acetaria di Plinio.
A conferma di un uso dell’aceto per conservare gli ortaggi sotto forma di sottaceti non si dimentichi che i Romani dall’uva ottengono il vino, il mosto e l’aceto eche Columella riporta alcune ricette per ottenere l’aceto nelle quali è previsto l’impiego di lievito acido per favorire la fermentazione, nonché l’immersione nel vino di sbarre incandescenti e pigne di abeti ardenti per purificarlo e liberarlo dai cattivi odori. Tra gli usi romani dell’aceto vi è la posca, una miscela dissetante di acqua e aceto, ritenendo anche che la posca dia forza, il vino ebbrezza (Posca fortem, vinum ebrium facit). Con un sistema che noi oggi si chiama marinatura, i Romani impiegano l’aceto per conservare i pesci fritti. Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia consiglia l’aceto per i malanni più disparati aggiungendo che l’aceto aggiunge gusto e piacere alla vita. I Legionari romani usano l’aceto per preparare la citata posca come bevanda dissetante ma anche per la pulizia del corpo e per prevenire e curare ferite non gravi. Sulle tavole dei banchetti romani non manca mai l’acetabolo, ciotola piena d’aceto nella quale ogni commensale intinge pezzetti di pane per rifarsi la bocca tra una pietanza e l’altra, favorendola digestione. A base di aceto sono quasi tutte le ricette e vari tipi di salse di Apicio, il gastronomo romano per eccellenza, e con l’aceto si condiscono le insalate miste di carne e verdure o solo verdure,mentre le acetaria (i nostri sottaceti) sono servite come intervallo tra una portata e l’altra.