La qualità dei grani duri : la produzione nazionale è pari o superiore a quella dei grani duri di qualità importati?
La qualità rappresenta un’esigenza fondamentale per ogni prodotto agricolo destinato alla trasformazione industriale pertanto si fa sempre più insistente l’esortazione rivolta per un verso al mondo agricolo per un sempre più concreto perseguimento dell’obiettivo qualità delle produzioni , per altro al potere pubblico per lo sviluppo di una politica mirata in tal senso.
Per il grano duro destinato alla pastificazione i requisiti qualitativi sono uno dei punti chiave dell’intero sistema produttivo tendente ad assicurare uno standard di qualità adeguata al prodotto finito, la pasta alimentare.
Interpretata in senso lato, l’espressione “ qualità tecnologica dei grani duri” comprende sia gli elementi che incidono sul valore molitorio (inteso come resa in semola con definiti attributi analitici e commerciali), sia le caratteristiche connesse con il valore pastificante, ossia con la trasformabilità delle semole in paste alimentari aventi particolari proprietà organolettiche e legali.
I fattori che concorrono a determinare il valore molitorio sono quasi completamente dipendenti dalle condizioni ambientali e di raccolta mentre la qualità pastificante è legata al genotipo ovvero al patrimonio ereditario della varietà sul quale però agiscono (spesso in maniera determinante) l’ambiente di coltivazione (tecnologie agricole di coltivazione e terreno) e l’andamento climatico.
Pur senza trascurare l’importanza che ha il valore molitorio, soprattutto per l’omonima industria, quando si parla di qualità dei grani duri ci si intende riferire principalmente al valore pastificante identificato nell’attitudine del grano a dare una semola che conferisce al prodotto finito un aspetto gradevole (colore ambra chiaro)) e soprattutto buone caratteristiche di cottura ossia una pasta consistente, non collosa, non ammassata.
Negli ultimi cinquanta anni è stata svolta una gran mole di ricerca per spiegare le basi di tale qualità (Cubadda R. 1999, 2002). La ricerca si è basata sul presupposto che esistono uno o più componenti che determinano la suddetta qualità.
Gli studi antecedenti agli anni ’70 hanno messo in evidenza che le proteine, e in particolare quelle di riserva (glutine), sono un componente strutturale essenziale della pasta e che il tipo di glutine ha un effetto sulla qualità di cottura superiore anche alla quantità dello stesso. Sulla base di questo risultato la forza del glutine è stato il criterio che ha guidato il miglioramento genetico sino a quegli anni.
A partire dagli anni ‘70 il comparto della produzione della pasta subisce una vera e propria rivoluzione di processo con l’introduzione di nuove tecniche di essiccamento basate sulle alte temperature. Questa innovazione comporta conseguenze non solo di carattere impiantistico e dei tempi di lavorazione ma influenza altresì le proprietà del prodotto introducendo una nuova variabile nella determinazione della qualità di cottura oltre quelle già note della quantità e qualità delle proteine del glutine.
Infatti, le alte temperature d’essiccamento inducono profonde modificazioni incrementando considerevolmente la denaturazione delle proteine, come dimostrato dalla loro minore solubilità in acido acetico. Come è noto, la denaturazione promuove legami incrociati delle proteine del glutine, gliadina e glutenina, tramite legami disolfurici che incrementano la rigidità della rete proteica. A sua volta, una rigida rete proteica è capace di impedire che i granuli di amido fuoriescano dall’interno della pasta durante la cottura prevenendo così la collosità.
Esiste un ampia letteratura che dimostra l’effetto delle alte temperature d’essiccamento sulla qualità di cottura della pasta ed in particolare sulla collosità ( De Stefanis e Sgrulletta 1993, D’Egidio et al 1999, Cubadda et al.2007).
Tali ricerche sebbene condotte con approcci sperimentali diversi e con materie prime aventi caratteristiche differenti, sono tuttavia concordi circa l’effetto positivo sulla collosità o sulla consistenza della pasta o su entrambi i parametri anche se i risultati sono talvolta discordanti sull’entità dell’incremento di qualità riscontrato.
Uno studio effettuato diversi anni or sono (Cubadda, 1996) utilizzando 40 semole, aventi un ampio spettro nella qualità e quantità delle proteine, pastificate con cicli d’essiccamento a bassa (45°C) ed ad alta (80°C) temperatura, evidenzia che il 52% della variabilità della qualità di cottura è dovuta all’interazione quantità delle proteine/temperatura d’essiccamento quando viene usata la temperatura alta di 80°C mentre tale valore scende al 34% della variabilità nel caso della bassa temperatura di 45°C.
Una recente ricerca (Cubadda et al 2007) effettuata nell’intento di meglio evidenziare l’effetto della temperatura d’essiccamento al variare delle proprietà della materia prima (quantità e qualità del glutine) ha portato a nuove, importanti evidenze e conferme sull’influenza delle singole variabili e sulle loro interazioni sui due più importanti parametri della qualità ossia la collosità e consistenza della pasta cotta.
Lo studio è stato effettuato su due tipi di semola, una a glutine debole e l’altra a glutine forte. Per entrambi tipi di semola sono stati creati, aggiungendo il proprio glutine o amido estratti dalle stesse, una serie di campioni a contenuto proteico crescente (10,5; 11.5; 12,5; 13,5; 14,5 s.s.). Le dieci semole risultanti, cinque a glutine debole e cinque a glutine forte, sono state pastificate a bassa temperatura (BT) di 50° C , a media temperatura ( MT) di 70°C ed ad alta temperatura (AT) di 85°C con una punta di 90°C per 30 minuti.
Lo ricerca ha messo in evidenza che con le tecnologie di produzione attuali ad alta temperatura la qualità di cottura migliora al crescere del tenore in proteine anche in presenza nella semola di un glutine debole. Nel caso, tuttavia, di una contemporanea presenza di un glutine forte e buon tenore proteico non è necessario forzare la temperatura d’essiccamento per conseguire una buona qualità della pasta.
Dai risultati suddetti nonché dalla pratica industriale si evince che le proteine del grano giocano un ruolo chiave sulla qualità del prodotto finito.
Tutto ciò premesso come si colloca nei riguardi del tenore in proteine la produzione nazionale di frumento duro?. L’esperienza tratta della pratica produttiva e i numerosi dati sperimentali ci indicano in maniera inequivocabile che nei più importanti areali produttivi, in particolare nelle zone meridionali, il tenore in proteine è piuttosto mediocre e in certe condizioni avverse talvolta scadente.
Tale situazione è nota da tempo, tanto che anche quando il nostro Paese era autosufficiente per la produzione di frumento si faceva ricorso alle cosiddette “importazioni tecniche” sia di duro che tenero effettuate per miscelare il prodotto nazionale con quello importato al fine di correggerne i difetti qualitativi.
Uno dei pochi studi effettuato sulla qualità dei grani duri stoccati, realizzato nell’ambito del Progetto Qualità e Tracciabilità del Grano Duro in Sicilia, ha messo in evidenza che su 4274 partite analizzate per il 2000, 4582 per il 2001, 5519 per il 2002, 11870 per il 2003 e 11230 per il 2004, il tenore in proteine è stato rispettivamente in media 12,7, 11,5, 13,2, 12,3 e 11,0% su sostanza secca (Cartabellotta et.al 2005). Da questi dati emerge che solo per il 2002 e parzialmente per il 2000 il grano duro siciliano ha un tenore proteico accettabile. Se si considera che in macinazione, nel passaggio da grano a semola, si perde una quantità variabile di proteine ma comunque superiore ad una unità percentuale, la produzione siciliana del 2004 e probabilmente quella del 2002 non consentirebbe di raggiungere nella semola il valore minimo di 10,5% di s.s. richiesto dalla legge 4 luglio 1967, n. 580 e successive modificazioni. In altri termini tali semole da sole non potrebbero essere commercializzate e utilizzate nella fabbricazione della pasta senza incorrere nelle penali previste dalla legge suddetta.
Al presente, il notevole sforzo nel miglioramento genetico attuato nel recente passato da meritevoli istituzioni pubbliche e da privati, purtroppo con finanziamenti inadeguati, ha si portato a qualche risultato positivo ma il problema fondamentalmente resta irrisolto.
I fattori che interagiscono negativamente sul contenuto in proteine del grano duro nazionale, in particolare su quello delle regioni meridionali, sono molteplici. Riassumiamone alcuni:
– la brevità del ciclo che va dalla spigatura alla maturazione fisiologica della cariosside che spesso a causa dei venti caldi e della insufficiente umidità del suolo comporta un precoce essiccamento delle foglie con conseguente interruzione della funzione clorofilliana e pertanto dell’assorbimento di elementi nutritivi e accumulo delle proteine di riserva (gliadine e glutenine);
– l’impoverimento del suolo e lo sviluppo di patogeni a causa della scellerata pratica del ringrano;
– la mancanza di una razionale rotazione delle colture;
– la scelta di cultivar inadeguate dal punto di vista qualitativo presenti nel vasto panorama varietale nazionale;
– la frequente inadeguatezza delle tecnologie agronomiche di produzione, inclusa naturalmente una razionale concimazione.
D’altro canto la mancanza di un “grading” e di uno stoccaggio differenziato non promuove la valorizzazione di quelle partite di elevata qualità, che pur ci sono. Tutto ciò al contrario di quanto avviene in Canada, nostro tradizionale paese esportatore, dove le partite commercializzate sono omogenee, tipizzate e garantite con flussi regolari.
Nonostante questa situazione la qualità organolettica della pasta italiana è migliorata a partire dagli anni ‘’70 ad oggi raggiungendo un livello in generale adeguato e, in riconosciuti casi, punte di eccellenza. Certamente a questo miglioramento ha dato un significativo contributo la nuova tecnologia di produzione ma anche una sapiente utilizzazione dei grani duri di importazione ad elevato tenore proteico e buona qualità del glutine.
Poiché l’importazione di grani duri di qualità ha ovviamente un costo ed è in competizione con il prodotto locale, quali provvedimenti si possono adottare per limitarne l’utilizzo?.
Certamente non aggirando il problema attraverso il ricorso a iniziative legislative tipo il recente decreto del 26 luglio 2017 “indicazioni dell’origine, in etichetta, del grano duro per paste di semola di grano duro” pubblicato sulla G.U. N. 191 del 17 agosto 2017.
Secondo un comunicato stampa del MiPAAF l’obiettivo di tale decreto è “ dare la massima trasparenza delle informazioni al consumatore rafforzando così la tutela dei produttori e dei rapporti di due filiere fondamentali dell’agroalimentare Made in Italy”.
A parte le considerazioni sulla forma, c’è veramente da credere che il decreto possa “rafforzare” la nostra produzione di grano duro e “tutelare i produttori”?. Il parere ricorrente è che il decreto non sposterà l’utilizzazione di un solo chicco di grano duro di qualità importato in favore del prodotto nazionale.
D’altro canto, si dimentica di dire che, indipendentemente dalla qualità, l’importazione è indispensabile per sopperire alla carenza di grano duro nazionale insufficiente a coprire i consumi interni e l’esportazione del prodotto trasformato (pasta).
In altro comunicato stampa dello stesso MiPAAF si legge “oltre l’85% degli italiani considera importante l’origine delle materie prime per questioni legate agli standard di sicurezza alimentare, in particolare per la pasta e il riso”. Con tale affermazione si spera non si voglia far credere che solo utilizzando materie prime nazionali si rispettano gli standard di sicurezza mentre l’uso di quelle importate presenta “questioni” legate ai predetti standard. Premesso che qualsivoglia materia prima alimentare che non rispetta gli standard di sicurezza è inidonea all’alimentazione umana, sarebbe di conseguenza gravissimo che il nostro Paese consentisse l’utilizzo alimentare di prodotti non pienamente sicuri.
Invece di seguire vie traverse per proteggere la nostra produzione nazionale perché non cercare di valorizzarla investendo in ricerca per l’ottenimento di nuove varietà e nuove tecnologie agronomiche che consentano, anche in condizioni difficili, una produzione quali-quantitativa tale da soddisfare le esigenze dei produttori agricoli e dell’industria di trasformazione. I politici delle Istituzioni invocano spesso la ricerca ma hanno una speciale idiosincrasia a capirla e finanziarla adeguatamente.
E’noto che per gli agricoltori meridionali non sussiste un alternativa di coltivazione valida, a livello economico, sostitutiva al grano duro pertanto, per un insieme di motivazioni socio-economiche, ricercare soluzioni utili al loro lavoro non è solo utile ma doveroso.
L’adozione di un poderosa, meditata attività di ricerca volta all’ottenimento di nuovi genotipi adatti all’ambiente meridionale e specifici per i vari areali pedo-climatici tanto frequenti nel nostro paese, di buona qualità tecnologica e agronomica, capaci di sfruttare al meglio i fertilizzanti per unità di prodotto e di richiedere pochi o affatto interventi fitosanitari, potrebbe fortemente contribuire a migliorare e valorizzare significativamente la nostra produzione e contenere le importazioni. Allo stesso tempo sarebbero da ricercare nuove tecnologie agronomiche e finanziare, ove fosse possibile con contributi della CEE, tecniche atte a migliorare la fertilità dei suoli.
A livello commerciale appare indispensabile adottare un “grading” e uno stoccaggio differenziato delle partite, parimenti a quanto attuato nei Paesi produttori ( Canada, Stati Uniti, Australia ecc.) ed esportatori verso il nostro Paese.
Come dianzi accennato, una coltivazione importante come quella del grano duro che, fra l’altro, alimenta un industria di trasformazione, il cui prodotto ha un immagine prestigiosa nel mondo, merita tutta l’attenzione delle istituzioni e degli attori coinvolti nella filiera produttiva. Il rafforzamento di uno standard qualitativo adeguato, unitamente ad una buona qualità agronomica, ci consentirebbe di valorizzare al massimo il nostro prodotto e di affrontare vantaggiosamente la concorrenza del mercato mondiale.
RIFERIMENTI
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