Finché c’è cibo, c’è speranza…

Da quando ho iniziato a pensare il cibo? Più precisamente, da quando ho iniziato a pensare al cibo come valore, come origine dei pensieri, delle motivazioni, del benessere della salute? Di certo, quando ero ragazzina, proprio non pensavo ad alcuno di questi risvolti. Il cibo per me era un terreno ludico e di forte appagamento, tanto che se nel mio piatto compariva qualcosa di particolarmente gustoso ci restava davvero per poco. Ora che ci rifletto, la prima volta che ho pensato al cibo come qualcosa all’interno del quale si potevano sviluppare reazioni chimiche, sinergie, combinazioni, non sempre benefiche, è stato in occasione di un esperimento culinario. Da piccola ero, infatti, una pioniera della cucina creativa, combinavo sostanze e sapori in modo spregiudicato. Ero un’alchimista che, invece degli alambicchi, avevo a mia disposizione pentole e fornelli. E molti erano i pomeriggi che invece di vedermi alle prese con il latino, la storia o magari la matematica, mi vedevano imperare in cucina magari con il naso impolverato di farina. Un giorno però una mia amichetta, che si era sottoposta alle mie inventive culinarie “border-line”, mi fece un po’ atterrita una domanda che mi lasciò sconcertata, sorpresa, stupefatta. Ma sei sicura che se metti tutti questi ingredienti insieme non ci faccia male, o che magari provochi delle reazioni tossiche? La mia amica è diventata medico cardiologo e forse già allora si poneva più domande di me, o almeno godeva di maggiore buon senso rispetto a quanto io, travolta dall’ansia creativa, ne avessi in quel momento.

Quel ricordo però l’ho seppellito per anni e, forse anche allora, ho alzato le spalle e sono andata avanti nel mio folle progetto culinario. Insomma, la domanda della qualità di ciò che stavo preparando e della combinazione delle sostanze, era proprio al di là da venire. Poi gli eventi della vita sono stati tanti per tutti noi e forse, più di prima, abbiamo iniziato a chiederci che cosa ci fosse dentro il nostro piatto, o meglio, dietro al nostro piatto. Ed ecco fioccare i milioni di interventi, discussioni, ricerche, approfondimenti per parlarne, per sviscerare il problema. Negli anni abbiamo navigato dall’agricoltura sostenibile, al biologico, al geneticamente modificato o al non geneticamente modificato, insomma l’obiettivo era comunque sempre quello di tutelare la salubrità di quello che c’era nel nostro piatto. Dall’osservatorio del mondo occidentale ci interrogavamo se quello che mangiavamo fosse salubre e sicuro.

Oggi la domanda che forse paradossalmente ci iniziamo a porre, dopo quelle seppur alte riflessioni, è se qualcosa c’è nel nostro piatto. Da fonti Istat emerge che in Italia una famiglia su 4 è a forte rischio di povertà. Nel 2013 il 12,6% delle famiglie è in povertà relativa e il 7,9% è in povertà assoluta. Ecco che milioni di persone, basta fare un rapido calcolo, sono passate in pochi anni al di sotto della soglia di povertà e per queste persone, ciò che prima era scontato e ovvio, oggi non lo è più e neppure il cibo è più una certezza. Sono i dati che lo dicono. Non sono stata colta da sindrome prenatalizia, questa è la realtà. Il cibo è diventato anche nelle nostre città, e non più per pochi, da fonte di gioia e appagamento a grossa preoccupazione. Potremmo forse dire che con la crisi ci sono meno sprechi domestici, che si butta via meno cibo ancora buono nelle nostre pattumiere rigorosamente differenziate. Mah, ho il dubbio che chi buttava via il cibo anni fa, continui a farlo e che, per chi invece prima non lo faceva, ora la preoccupazione è sempre più se il cibo raggiungerà la sua tavola. So bene che sto scrivendo per paradossi, per esagerazioni, ma ne siamo sicuri? Il punto è che non è più scontato neppure nelle nostre città mettere insieme per tutta la famiglia il pranzo con la cena e allora io mi chiedo se parlare oggi della salubrità del cibo, della sua qualità e magari della sua sostenibilità ambientale, sia diventato un lusso. Stiamo forse parlando di spaccare il capello a metà senza neppure averlo più, il capello tra le mani? Io non sono una ricercatrice, neppure una genetista, neppure una studiosa della materia, ma sono attenta, come tanti, ai risvolti sociali dei fenomeni e dei cambiamenti economici, culturali e politici. Mi chiedo se chi ha sempre meno possa davvero continuare ad interrogarsi sulla qualità del cibo di cui si nutre, e se non abbia invece più tanta voglia di chiedersi che cosa c’è dentro al bauletto di pane a pochi centesimi, confezionato e già tagliato a fette e che promette una freschezza indeterminata. Mi chiedo se la povertà, non solo rischi di impoverire le tavole di molti, ma rischi soprattutto di tagliare le fondamenta alla cultura del cibo inteso, così come noi tutti vorremmo, come valore, come origine dei pensieri, delle motivazioni, del benessere e della salute. Forse è il caso, quindi, di trattare oggi la questione della qualità e della quantità di cibo disponibile sventando qualsiasi rischio di deriva elitaria, affrontando il tema da un punto di vista capace di tenere maggiormente conto degli aspetti sociali, economici e collettivi di questo tempo.

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Redazione Fidaf

3 pensieri su “Finché c’è cibo, c’è speranza…

  1. “Mangiare è come andare in bicicletta: richiede equilibrio. Ci sono persone che lo trovano facile per natura e, una volta montate in sella, spingono sui pedali e vanno. Altre, invece, hanno bisogno di molto esercizio e di un continuo sforzo di volontà. Per rialzarsi da tutte le cadute e continuare a pedalare.” Così scrive Benedetta Callegari in http://www.intersezioni.eu/index.php?objselected=720&scheda=view_articolo e aggiunge
    “Avere equilibrio nel mangiare significa saper valutare e distinguere ciò che è bene mangiare da ciò che è dannoso (o non sano), ossia ricordarsi sempre delle regole acquisite – familiari, sociali o di qualsiasi genere siano –, a volte infrangerle, ma poi tornare a rispettarle. …Ci sono gli impulsi nervosi che azionano le parti più istintive e antiche, ma c’è un altro livello che si muove: quello emotivo che coinvolge il sistema endocrino con l’ipotalamo che gestisce la complicata rete tra ormoni e ghiandole”.
    Cecilia, nel suo articolo, introduce molto opportunamente il tema della povertà anche nel nostro Paese che rischia …..di impoverire le tavole e … il valore culturale del cibo….

  2. Hai ragione. Infatti c’è il rischio che le persone più deprivate e con meno mezzi culturali ed economici finiscano inevitabilmente per alimentarsi male e poi ne patiscano le conseguenze. L’aspetto assurdo è che oggi-che esiste una maggiore consapevolezza sui rischi per la salute di una alimentazione sbagliata e sui costi che il sistema sanitario deve affrontare per curare le persone obese – queste persone siano anche colpevolizzate e, magari, escluse dall’assistenza

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